venerdì 16 maggio 2008

L’atomo dove lo butto

Left (avvenimenti), 28 marzo 2008
L’atomo dove lo butto
Il primo grande problema è quello delle scorie. Ma dopo cinquant’anni di applicazione civile dell’energia atomica è ancora così? Purtroppo la risposta è sì. Lo dimostrano i fatti. E una lunga storia di tentativi falliti
di Massimo Serafini e Gabriele Trama

Un impianto nucleare produce scorie essenzialmente di due tipi: a bassa e ad alta radioattività. La maggior parte sono quelle a bassa radioattività che decade nel giro di alcune centinaia di anni e che possono essere stoccate in depositi superficiali, a poche decine di metri di profondità e vanno controllate per circa trecento anni. Quelle ad alta radioattività sono venti volte minori in volume, ma la loro radioattività persiste per migliaia di anni e necessitano, dopo alcuni decenni di raffreddamento, di uno stoccaggio sicuro. Il problema delle scorie ad alta radioattività non è stato risolto in nessun Paese del mondo. Per ora questi rifiuti si accumulano presso le centrali e in siti provvisori, mentre il dibattito fra gli scienziati è aperto.

Le proposte per eliminarle o neutralizzarle sono le più disparate e, a volte, sconfinano nella fantascienza. Ad esempio, l’impiego di batteri in grado di metabolizzare radionuclidi si è, da subito, rivelato non attendibile in quanto questi sarebbero efficaci solo su parte di scorie a bassa radioattività. Da subito bollata come irresponsabile la proposta di affondare le scorie nelle profondità marine, dove ben presto la corrosività dell’acqua del mare avrebbe ragione dei contenitori, esponendo l’intero ecosistema alle radiazioni con conseguenze inimmaginabili. Risolutivo sarebbe usare il sole come discarica, ma il bilancio energetico ed economico di tale soluzione appare decisamente sfavorevole, per non menzionare il rischio, elevato, di incidente: in caso di fallimento del lancio della navicella piena di scorie e di sua esplosione nell’atmosfera vi sarebbe un fall out radioattivo su grandi zone della terra. Venendo a soluzioni più fattibili si pensa allo stoccaggio dei rifiuti ad alta radioattività in depositi profondi e in particolari formazioni rocciose in grado di neutralizzarli per ere geologiche. Ma non tutti gli scienziati concordano, alcuni temono che sia estremamente rischioso nascondere nel sottosuolo materiali con cosi alto grado di radioattività, temendo che in tempi così lunghi comunque possano esservi rilasci radioattivi.
A oggi di fatto la soluzione adottata sembra proprio quella di stoccarli in depositi profondi e in particolari formazioni rocciose in attesa che la scienza risolva il problema. Sebbene siano stati individuati, sia in Europa che in America, alcuni siti con caratteristiche geologiche idonee, nessun sito di stoccaggio profondo è operativo salvo quello degli Stati Uniti che però raccoglie le scorie provenienti da usi militari ed è gestito dalle autorità militari stesse. Infine è da menzionare la proposta molto interessante del Nobel Carlo Rubbia: la trasmutazione nucleare. Cos’è la trasmutazione? È la trasformazione di un elemento chimico in un altro attraverso una reazione nucleare. L’origine del termine risale al Medioevo, ai tempi in cui gli alchimisti tentavano di trasformare il piombo in oro. Oggi viene proposta per agevolare la gestione delle scorie nucleari, in particolare per ridurre la pericolosità e durata di vita di quelle a vita lunghissima (migliaia di anni), principalmente gli elementi transuranici quali il plutonio e gli altri attinidi. Si pensa di sottoporre gli elementi transuranici più pericolosi, contenuti nelle scorie, a un bombardamento di particelle nucleari proveniente da un acceleratore, sperando di produrre in questo modo uno spettro di scorie contenente un minor quantitativo di elementi radioattivi, e possibilmente con minore durata di vita. L’obiettivo è quello di separare e concentrare le scorie più pericolose e di trasformarle in modo da renderle meno pericolose e gestibili in un periodo meno lungo valutato intorno ai 500-600 anni. Si tratta di procedimenti estremamente complessi, che richiedono, oltre a ingenti misure di sicurezza e di confinamento, processi di separazione e trattamento diversi tra loro a seconda degli isotopi da trattare. Per ottenere gli effetti desiderati occorre impiegare acceleratori di particelle che, oltre a essere costosissimi, richiedono a loro volta molta energia. La trasmutazione è dunque un’idea da approfondire, ma ancora in attesa di verifiche sperimentali.

Insomma il problema del combustibile nucleare esaurito non può essere assolutamente trascurato e fin quando l’unico impiego sarà quello militare, per produrre cioè ordigni di distruzione di massa, non si può accettare una centrale atomica.

Secondo punto a sfavore del nucleare è quello della “insicurezza intrinseca”: una volta avviato un reattore nucleare, diventa impossibile spegnerlo. Nei manuali di ingegneria nucleare si sostiene che il pericolo principale per il reattore non è la reazione primaria di fissione dell’uranio, ma le reazioni secondarie che producono il cosiddetto “calore di decadimento” delle scorie. Purtroppo non c’è modo di fermare la produzione del “calore di decadimento”, in quanto le barre di controllo del reattore agiscono soltanto sulla reazione primaria della fissione dell’uranio e non sui processi di decadimento delle scorie presenti nel reattore in grande quantità. Pertanto una parte significativa della potenza del reattore rimane sempre attiva, anche a reattore spento. Per questo motivo una centrale nucleare, anche se ferma da molti anni, deve essere raffreddata continuamente per almeno vent’anni dopo la messa fuori servizio. Dunque la tecnologia non è intrinsicamente sicura.

Infine i tempi. Quando si fanno proposte di ritorno al nucleare si dice sempre che per realizzare una centrale (individuazione del sito, ottenimento di permessi e autorizzazioni, completamento della progettazione, realizzazione dei macchinari e apparecchiature in officina e delle opere civili in cantiere, montaggi, collaudi e messa in servizio) servono dieci anni. Ma se guardiamo i dati statistici questo tempo è stato rispettato una sola volta per un impianto giapponese. Normalmente il tempo necessario a completare una centrale nucleare è compreso fra i quindici e i venti anni, come stanno confermando i ritardi accumulati dall’unico impianto attualmente in costruzione, quello in Finlandia, il primo della cosiddetta terza generazione. Ma se questi sono i tempi, che senso ha sostenere che il nucleare è utile per realizzare Kyoto? I gas serra vanno ridotti ora, non fra 10 o 15 anni.
Sono tre buoni motivi per ribadire il no grazie di vent’anni fa.

28 marzo 2008

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