mercoledì 29 ottobre 2008

Energie rinnovabili: serve una rivoluzione copernicana

Energie rinnovabili: serve una rivoluzione copernicana
Liberazione del 28 ottobre 2008, pag. 20

di Nicola Cipolla
Mentre continua ad infuriare, malgrado le immissioni di liquidità di migliaia di miliardi di dollari, di euro e di yen, la crisi dei mercati finanziari e si sviluppa in Europa e in Italia un largo confronto sulle misure della UE contro la crisi ambientale gli articoli di Alfonso Gianni e di Marcello Cini sottolineano che "questo è il momento per la sinistra di costruire e fare valere una propria visione del futuro e della società che sia contemporaneamente la ricetta di fondo per uscire da questa crisi".
Partendo da queste premesse vorrei fare alcune considerazioni che continuano un impegno di mie riflessioni e di proposte a cui Liberazione in passato ha dato spazio.
Nel XX secolo le grandi rivoluzioni leniniste della Russia, della Cina, del Vietnam fino ad arrivare al Sud Africa ed ora all'America Latina, sono avvenute sulla base dell'alleanza degli operai e dei partiti che li rappresentavano con le sterminate masse contadine che sono state protagoniste sia della rivoluzione d'Ottobre sia della Lunga Marcia di Mao. Rivoluzioni che hanno posto fine ad un periodo della storia iniziato nel 1492 che ha dato all'occidente il dominio del mondo: la globalizzazione colonialista del genocidio degli indiani d'America, della tratta degli schiavi neri, della guerra dell'oppio e in ultimo all'apartheid del Sud Africa. Queste grandi rivoluzioni non ci hanno portato "sulla luna" di una società socialista quale noi sognavamo ma hanno certamente redistribuito ricchezze e poteri tra i principali raggruppamenti nazionali del mondo. Una società multipolare. Del resto anche la grande rivoluzione francese è riuscita sì ad aprire la strada alla libertà di commercio e di impresa e al diritto dei sudditi a farsi riconoscere come cittadini ma non a fare grandi progressi sulla strada dell'egalité e della fraternité.
L'altra grande crisi sistemica che è maturata, anche a causa dell'entrata di grandi popoli ex coloniali nella modernità, è quella di un sistema di capitalismo industriale basato sulle energie fossili: il carbone dell'800 che ha sostituito le vele con i piroscafi le diligenze con le ferrovie, i telai meccanici etc. Questa svolta tecnologica è stata alla base anche dello sviluppo della classe operaia e della cultura dell'organizzazione politica che, a partire da Il Manifesto di Marx ed Engels, si è sviluppata a cominciare dai paesi più industrializzati.
Alla fine dell'800 è cominciata l'era del petrolio, iniziata negli USA, la cui prorompente diffusione è stata lucidamente avvertita dal fondo di un carcere fascista da Antonio Gramsci con i suoi scritti su "americanismo e fordismo" e che, dopo la II guerra Mondiale, si è diffusa in tutti i paesi occidentali costituendo la base dell'egemonia americana.
Dopo due secoli di straordinario sviluppo industriale che ora si estende a quasi tutto il mondo questo modello basato sulle energie fossili si è rivelato, come Marcello Cini ricorda e come centinaia di scienziati hanno nel corso degli ultimi decenni sottolineato e i primi grandi disastri ambientali dimostrano, insostenibile in quanto attraverso questi processi produttivi vengono rimmessi nell'atmosfera composti di carbonio e di altre sostanze che l'evoluzione naturale nel corso di milioni di anni aveva sottratto dall'atmosfera e immagazzinato nelle profondità della terra rendendola vivibile come oggi la conosciamo.
Non riconoscere la necessità della fine di questo periodo storico dell'umanità significa, specie per chi vuole comunque collegarsi alle analisi del materialismo storico, porsi fuori dalla realtà e quindi fuori da ogni possibilità di influire sull'economia e sulla politica di ogni paese.
A mio avviso la crisi del movimento No Global è dovuta principalmente al fatto di non avere posto al centro della giusta critica alla globalizzazione capitalistica questo elemento di debolezza fondamentale del sistema economico basato sul profitto che costituisce, oggi nel XXI secolo, "l'anello più debole della catena".
In questo quadro si colloca l'attuale crisi dell'egemonia americana (si rilegga il libro di Immanuel Wallerstein Il declino dell'America) che è cominciata con la sconfitta del Vietnam e si conclude oggi con la crisi finanziaria di Wall Street che non pochi commentatori hanno paragonato alla caduta del muro di Berlino. L'avvento di un sistema unipolare al posto dell'equilibrio del terrore atomico bipolare, che aveva caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, è durato in termini storici lo "spazio di un mattino". I due colossi che si sono svenati nel corso della guerra fredda hanno perso entrambi la loro egemonia: simul stabant et simul cadunt.
Partendo dall'analisi di queste tre crisi: globalizzazione coloniale, crisi ambientale e crisi dell'egemonia americana, si può avviare la ricerca di linee nuove di azione per la sinistra italiana, europea e globale.
La crisi ambientale è di tale portata che pur in un periodo dominato dal pensiero e dalla pratiche neoliberiste a livello mondiale ad iniziativa soprattutto di alcuni paesi dell'Ue, con forte presenza ambientalista, e dell'Unione nel suo complesso è stata avviata una contrattazione a livello mondiale sfociata negli accordi di Kyoto che prevedono in linea di principio un intervento degli Stati nell'economia per ridurre le emissioni inquinanti al fine di evitare il disastro ambientale. La storia di queste trattative è estremamente significativa per l'azione che l'America ha svolto, prima con Clinton, che ha subordinato la sua firma degli accordi all'abbassamento dei vincoli inizialmente proposti e poi del suo successore Bush che si è rifiutato di riconoscere il patto firmato dal suo predecessore.
Questo fatto ha un grande rilievo sia per individuare il ruolo degli Usa nella battaglia contro l'effetto serra sia per sottolineare il loro isolamento visto che, anche per l'adesione della Russia di Putin, è stato raggiunto il quorum di paesi e di emissioni necessarie per l'entrata in vigore degli accordi (Berlusconi imitando Bush nel suo attacco di questi giorni agli accordi di Kyoto ha affermato che li contesta perchè sono firmati dal governo Prodi).
Ma la crisi ambientale continua ad andare avanti e quindi la Ue è stata costretta a stabilire un altro giro di vite (il 20-20 e 20) che ha scopi tecnici immediati ma ha, dal punto di vista politico, un valore alto per rafforzare il peso della UE nella trattativa che si va ad iniziare a livello mondiale per i nuovi e più performanti accordi tipo Kyoto, con la partecipazione questa volta anche della Cina, dell'India e degli Stati Uniti. Il programma elettorale di Obama, prevede l'annullamento delle importazioni di petrolio dal Medio Oriente e incentivi alle energie alternative capaci di creare 5 milioni di nuovi posti di lavoro non delocalizzabili, e gli Usa e la Cina stanno raggiungendo la Germania nei primi posti tra i paesi produttori di energia eolica.
Può la sinistra non essere presente con il suo radicalismo necessario in questo dibattito e in questa battaglia decisiva per la difesa dell'ambiente e per la costruzione di una nuova società?
Qui un'ultima riflessione. Il passaggio dalle fonti fossili alle fonti rinnovabili è un passaggio epocale come l'avvio della rivoluzione industriale basata sul carbone, sul petrolio e sulle altre energie fossili. Questo passaggio ha già effetti positivi in paesi come la Spagna, la Germania, la Danimarca etc. e più li avrà in futuro sull'occupazione, sullo sviluppo industriale, sulla bilancia dei pagamenti ed anche sul famigerato PIL. Siccome il sole, il vento sono a disposizione di tutti e non sono quotati in borsa si va determinando una redistribuzione di poteri all'interno del sistema economico e quindi anche del sistema politico. E quindi si possono creare le condizioni per nuovi rapporti sociali e politici. Naturalmente è ovvio che i poteri forti, ancorati al vecchio sistema, si oppongano in ogni modo, anche confondendo le acque attraverso i mass media, a questa trasformazione radicale del sistema energetico.
E' ovvio, altresì, che un governo come quello di Berlusconi assuma posizioni retrograde come il ritorno al nucleare già condannato dal popolo italiano con il referendum dell'8 e 9 novembre 1987 e l'attacco alle proposte ambientaliste del Parlamento Europeo con l'inquietante compagnia di viaggio di poco raccomandabili residui del Patto di Varsavia. Perciò è necessario uno sviluppo non solo culturale, non solo di mobilitazioni di massa in varie manifestazioni ma anche di un'organizzazione che concretamente si inserisca nel processo di trasformazione energetica.
Per fare un esempio: Alfonso Gianni ricorda che il governo Prodi ha, stavolta ben consigliato, trasferito nella legislazione italiana, con un suo provvedimento sul Conto Energia per gli impianti fotovoltaici, i principi già vigenti da oltre un decennio, in Germania. Questo ha portato già ad alcuni modesti risultati ma afferma il diritto per tutti i cittadini italiani di costruire sul tetto della propria casa un impianto solare fotovoltaico capace di produrre tutta l'energia necessaria liberando così le famiglie dalle bollette sia della luce che del gas e addirittura fornendo un diritto a ricevere un pagamento per l'energia in esubero immessa in rete. Una possibile rivoluzione copernicana del sistema energetico che interessa un terzo di tutti i consumi energetici del paese. Difendere e realizzare questo diritto, che sarà certamente insidiato dal governo Berlusconi, (assieme al risparmio e alle altre energie rinnovabili) è una delle sfide fondamentali per lo sviluppo anche democratico del nostro paese.

giovedì 16 ottobre 2008

Altolà di radicali e Italia dei Valori Nucleare, l'agenzia apre un caso nel Pd

Altolà di radicali e Italia dei Valori Nucleare, l'agenzia apre un caso nel Pd

Corriere della Sera del 16 ottobre 2008, pag. 14

di S. Riz.

Il nucleare apre un caso nel Pd, anche se per Erminio Quartiani, uomo chiave della partita, la questione semplicemente non esiste. Non esiste perché i radicali che martedì alla Camera hanno preso le distanze dall'Agenzia per la sicurezza nucleare («che se c'è è perché abbiamo fatto noi la proposta», precisa il deputato del Pd), «non sono il Partito democratico». Resta il fatto che Elisabetta Zamparutti deputata radicale che ha sconfessato pubblicamente quell'Agenzia, passata in commissione con l'astensione puramente «politica» del Pd, che l'ha però concretamente sostenuta, è nello stesso gruppo parlamentare di Walter Veltroni. Ed è la prima volta che lì si fa una crepa su un tema così delicato come il ritorno alle centrali atomiche. Circostanza che fa quasi passare in secondo piano la ben più rumorosa reazione dei dipietristi che per bocca di Domenico Scilipoti si sono detti «stupiti per l'asten­sione del Pd, che invece ha sempre avuto una posizione diametralmente opposta a quella del governo, ovvero contro il nucleare».



Che cosa sta succedendo? Per Quartiani la posizione assunta dal Pd, indicativa secondo il leghista Andrea Gibelli, presidente della commissione Attività produttive della Came­ra, di «un clima bipartisan e costruttivo» sul ritorno al nu­cleare, non è né più, né meno, che quella «contenuta nel programma elettorale». Semmai con una «evoluzione che fa i conti con una situazione nuova». Quale sarebbe? «C'è una maggioranza parlamentare disponibile a chiudere con le preclusioni ideologiche e a dotarsi di una struttura per la ricostruzione di un sistema italiano per l'energia nucleare», spiega Quartiani. Ma se questo è vero, resta soltanto da capire se questa linea sia condivisa da tutto il Partito democratico, radicali a parte.



Anche l’ambientalista Ermete Realacci, per esempio, invita a ripassare il programma del Partito democratico. «C'è una posizione nota da tempo, che è quella di guardare, senza ideologismi, alle possibilità di sviluppo dell'energia atomica di quarta generazione».



Ma nel programma, sottolinea il ministro ombra per l'Ambiente del Partito democratico, «si dice pure che il nucleare non può essere la panacea per i nostri problemi energetici». E poi aggiunge: «Il governo vuole fare le nozze con i fichi secchi. Senza nemmeno dare garanzie di indipendenza per le nomine dell'Agenzia, prevedendo per esempio un passaggio parlamentare. Questa accelerazione è molto propagandistica e poco utile per l'Italia».



Soltanto sfumature? Andrea Margheri, ex senatore del Pci che a sinistra è fra i più convinti nuclearisti, la vede così: «La maggioranza ha scelto questo cavallo di battaglia per pura propaganda. L'opposizione risponde come fece Bertoldo, disposto a farsi impiccare a condizione di poter scegliere la pianta a cui appendere la corda. E scelse , una pianta di fragola». Traduzione: «Il Partito democratico sta sfuggendo al problema. La formula "nessun ideologismo" con cui Matteo Colaninno (mini­stro ombra del Pd per lo Sviluppo, ndr) pensa di aver risolto la questione, in realtà non risolve nulla. Perché se matura una scelta nucleare seria bisogna lavorarci, senza distinzioni politiche, con il contributo di tutte le energie. E questo ancora non si vede».

mercoledì 15 ottobre 2008

Nucleare, il governo va in minoranza

Nucleare, il governo va in minoranza

L'Unità del 15 ottobre 2008, pag. 8

di S.C.

Il ritorno al nucleare, che lo si ritenga giusto o sbagliato, è una cosa seria. E infatti il governo prima non ha neanche preso in considerazione l’ipotesi di istituire un organismo che vigili sui futuri impianti e sulla gestione delle scorie, poi ha approvato la nascita della cosiddetta Agenzia per la sicurezza nucleare, un ente che è sotto il controllo della presidenza del Consiglio. È tutto documentato nel resoconto dei lavori della commissione Affari produttivi della Camera. E nello sguardo d’insieme, non è che un dettaglio il fatto che il governo sia andato sotto nella votazione di un emendamento targato Lega e sottoscritto dal Pd che ha fatto sì che il tema della sicurezza in questo settore non sia delegato al solo ministero dell’Ambiente.



Domani il pacchetto energia del disegno di legge sullo sviluppo, che contiene le nonne relative al nucleare, verrà discusso in Aula. Ma già il confronto avvenuto in Commissione la dice lunga sul modo in cui il governo sta procedendo nel ritorno all’atomo. Prima la maggioranza ha deciso la soppressione dell’Enea (l’attuale Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente) che verrà sostituita da un nuovo organismo, l’Enes, poi ha provveduto al commissariamento della Sogin, società a cui è stata affidata negli anni passati la messa in sicurezza degli impianti italiani ancora in funzione e di quelli dismessi.



Ieri c’è stata la ciliegina sulla torta: dopo che il Pd ha lamentato l’assenza nel provvedimento messo a punto dalla maggioranza di un organismo nazionale di controllo, il governo ha presentato un emendamento al testo che introduce l’Agenzia per la sicurezza nucleare. L’ente dovrà gestire le scorie, autorizzare e controllare i nuovi impianti, effettuare le ispezioni e decidere eventuali multe e sospensioni o revoche delle autorizzazioni.



Quello che chiedeva l’opposizione, e non a caso il capogruppo del Pd in Commissione Andrea Lulli ha fatto notare che «il governo ha fatto marcia indietro» istituendo l’organismo. Ma alla fine il Pd si è astenuto, così come l’Udc, mentre l’Idv ha disertato il voto. Il motivo? Un paio di dettagli, su cui l’opposizione promette battaglia in Aula: il presidente dell’Agenzia verrà nominato dal presidente del Consiglio, che con decreto stabilirà anche i criteri di organizzazione e funzionamento interni dell’organismo.

domenica 12 ottobre 2008

Nucleare, quando i conti di Conti (Enel) tornano e danno ragione all´eolico

Nucleare, quando i conti di Conti (Enel) tornano e danno ragione all´eolico
di Massimo Serafini

ROMA. In un’intervista Sul Sole 24 ore di venerdì scorso, l’amministratore delegato dell’Enel Conti, annuncia agli industriali italiani: «Piano da venti miliardi, investire nel nucleare si può e l’Enel ha le competenze e i margini economici per farlo».
Tralasciando la questione se sia vero o meno che l’indebitata Enel abbia le risorse per affrontare un simile investimento, concentriamoci su quali obiettivi realizzerebbe: con 20 miliardi è possibile (secondo Conti) costruire 5 6 centrali nucleari di grande taglia (1600MW) come quella di Flamanville, per circa 9000 MW complessivi di potenza nucleare installata che produrrebbero circa 60 miliardi di kilowattora, il 20% dell’energia elettrica consumata oggi in Italia.

l'articolo completo lo trovate su greenreport a questo link

lunedì 6 ottobre 2008

E Pd apre al nucleare: le centrali? Nessun pregiudizio ma serve ricerca

E Pd apre al nucleare: le centrali? Nessun pregiudizio ma serve ricerca

L'Unità del 6 ottobre 2008, pag. 3

di Federica Fantozzi

Il Pd dice sì al nucleare purché sia un «sistema»: quarta generazione, ricerca avanzata, know how, rientro dei cervelli. E le centrali che il governo vuole costruire? In questo quadro, «nessun pregiudizio», l’epoca del «no ideologico a prescindere» è tramontata. Paletti invece sì: un paio di centrali non risolvono il problema del fabbisogno energetico e non devono essere «uno spot». Va in pressing il ministro dello Sviluppo Economico Scajola: «Basta chiacchiere, sfidiamo la sinistra e speriamo che raccolga la sfida. Se tutti i Paesi al mondo vanno sul nucleare, perché noi no? Non possiamo dipendere dagli umori di Paesi a rischio che ogni giorno potrebbero chiudere i rubinetti». Stamattina a Roma il partito di Veltroni terrà la sua Conferenza Economica intitolata «Così non va. Prezzi, redditi, produzione, consumi». Ne parleranno, oltre al leader, il ministro ombra dell’Economia Pierluigi Bersani, l’economista Stefano Fassina, i ministri ombra dello Sviluppo Economico Matteo Colaninno (che sarà il relatore sui temi energetici), del Welfare Enrico Letta e delle Infrastrutture Andrea Martella.



La Conferenza farà anche le pulci al centrodestra: «La politica economica del governo è assente. Non basta aver finito di abolire l’Ics e detassato gli straordinari». Alla presidente di Confindustria Marcegaglia risponderà: «Più Stato va bene, ma anche quando detta le regole, non soltanto quando aiuta le imprese». Tra le proposte ci sarà quella di sostituire alla social card una misura strutturale: una «quindicesima» per le pensioni fino a 4-500 euro. E la terza «lenzuolata» delle liberalizzazioni avviate da Bersani con il governo Prodi.



Mentre il ministro Scajola rassicura che il governo è determinato a porre la prima pietra di una centrale nucleare entro la fine della legislatura, nel Pd il tema dell’energia atomica diventa oggetto di un approccio articolato. Non una svolta: le aperture sull’argomento si sono susseguite, da Realacci a Bersani a D’Alema. Ma un chiarimento che dovrebbe spazzare via le chiusure aprioristiche del passato.



E che in un settore così delicato, su cui gli italiani si sono espressi con un referendum, alimenterà di certo un dibattito. I Democratici hanno così messo nero su bianco un progetto di lungo respiro e di apertura mirata alle nuove tecnologie che produrrà effetti tra 10-15 anni. Senza però chiudere la porta in faccia alla maggioranza.



Il piano di Largo del Nazareno prevede investimenti sulla formazione di operai e ingegneri («tutta da ricostruire, siamo fermi a vent’anni fa» spiega un tecnico del settore), siti di smalti- mento delle scorie e dei rifiuti sanitari. Prima fase: far rientrare l’Italia nel club dei Paesi a competenze avanzate, come Usa e Francia. Seconda fase: trovare un «mix energetico» in ambito europeo, in modo che se Francia e Germania investono sul nucleare il Belpaese può insistere sul gas.



Il governo vuole affidare all’atomo il 25% del fabbisogno energetico (anche se Scajola mira a ripartire dal petrolio italiano: un miliardo di barili stimati nel sottosuolo), il Pd non si sbilancia sulle percentuali. E chiaro che l’investimento maggiore resta sulle energie rinnovabili, mentre per la risposta immediata bisogna insistere sui rigassificatori.



E se Berlusconi spinge sul caro gasolio per convincere la gente, Bersani replica con una battuta: «Non ho mai visto un’auto andare a motore nucleare...». Ecco perché tra le prossime liberalizzazione c’è anche l’abolizione delle distanze minime tra benzinai.
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commento:
tutti i partiti sono diventati delle scorie nucleari di difficile smaltimento.

giovedì 2 ottobre 2008

Viene dal mare l'incubo nucleare

Viene dal mare l'incubo nucleare

di Junko Terao

Il Manifesto del 19/09/2008

Paura atomica per 30 milioni di giapponesi: a fine settembre la superportaerei attraccherà a Yokosuka, il più grande porto militare del Pacifico occidentale. È in ritardo, per «un piccolo incendio»: 70 milioni di danni e 36 feriti

All'arrivo a Yokosuka il colpo d'occhio è impressionante. Lungo la Yokosuka sen, la linea del mare, quella che nei fine settimana estivi i tokyesi prendono in massa per andare a fare un tuffo, il treno corre lungo la costa, l'oceano sulla sinistra e i boschi fitti sulla destra, poi imbocca un tunnel e lo scenario cambia nel giro di un minuto. Pensi di arrivare in una città di mare come quelle appena lasciate alle spalle, lunghe spiagge di sabbia sovrastate da foreste e casette basse, e ti ritovi nel più grande porto militare del Pacifico occidentale. Diciotto punti di ormeggio, diciassette imbarcazioni da guerra tra portamissili, sommergibili e fregate. Ne manca solo una, la più grande e spaventosa, che arriverà a fine settembre: la George Washington, la prima portaerei americana a propulsione nucleare ad attraccare in modo permanente in una città-porto giapponese. A una manciata di minuti c'è Kamakura, l'antica capitale risparmiata dai bombardamenti americani, panorama decisamente più gentile rispetto a Tokyo e meta obbligata per i turisti stranieri in cerca dell'illusione del «Giappone autentico». A Yokosuka, invece, il sabato pomeriggio trovi solo gruppetti di soldati americani a riposo che aspettano il treno per andare a Roppongi, il quartiere delle meraviglie per gli stranieri della capitale. La città, 400mila abitanti, si affaccia su una baia interamente occupata dal porto militare in uso alla marina statunitense e alle Forze navali di autodifesa giapponesi. A ridosso del porto, la base militare Usa, costruita subito dopo la vittoria alleata nel '45. E' da qui che partono le navi da guerra dirette in Iraq e nell'Oceano indiano per le operazioni in Afghanistan. Ed è qui che il 25 settembre attraccherà la George Washington: 102mila tonnellate per 333 metri di lunghezza e un'altezza pari a un edificio di 24 piani. Un ponte di volo in grado di ospitare un'ottantina di aerei e alloggi per un equipaggio di 6.500 persone. Il tutto trasportato dalla forza di due reattori nucleari Westinghouse con un'autonomia di quasi 5 milioni di chilometri. Il mastodonte manderà in pensione la vecchia Kitty Hawk, a carburante convenzionale, che da tempo disturba il sonno dei cittadini di Yokosuka e quello di tutti gli abitanti dell'intera area metropolitana di Tokyo - circa trenta milioni - costretti per i decenni a vivere con l'incubo nucleare sotto casa. Una situazione imposta dall'alto, su cui nessuno - non i cittadini, non il sindaco e nemmeno il governo - ha potuto o voluto esprimersi. Il primo cittadino Kabaya Ryouichi, eletto nel 2005 col sostegno del Partito liberaldemocratico, ha accolto la decisione con rassegnata deferenza, come ha fatto il governo di Tokyo quando da Washington è arrivata la comunicazione dell'arrivo della portaerei. Solo alcuni tra gli abitanti più combattivi della città-porto si sono organizzati in gruppi di protesta, e da tempo combattono come possono. «Per due volte abbiamo raccolto migliaia di firme e chiesto formalmente al consiglio comunale di fare un referendum per chiedere l'opinione dei cittadini, ma ce l'hanno sempre respinto», ci racconta Shigeki Suzuki, tassista sulla sessantina e presidente della Heiwasendan, letteralmente «flotta di pace», associazione di una ventina di membri che organizza manifestazioni per mare. Ogni volta che una nave o un sottomarino lasciano il porto o rientrano, l'equipaggio pacifista parte a bordo di gommoni o motoscafi a guastare le manovre. Microscopici pesci contro una balena, ma «bisogna evitare il silenzio, è importante che si sappia che non accettiamo tutto questo senza battere ciglio», spiega Hiroshi Niikura, tipografo, attivista pacifista fin dai tempi delle lotte del Sessantotto giapponese. Allora si pensava ci fosse ancora qualcosa in gioco: contro il rinnovo del trattato di sicurezza nippo-americano, contro la guerra del Vietnam - le navi americane partivano da Yokosuka, come quelle per la Corea - contro la costruzione dell'aeroporto di Narita. Nel frattempo, a Yokosuka, alcuni irriducibili combattevano la loro inutile battaglia contro il coinquilino sempre più ingombrante: la base americana e le gigantesche portaerei che a partire dal 1973, con la Midway, hanno ininterrottamente fatto parte del panorama della città. Eppure, allora, nessuno aveva detto che alla Midway sarebbero seguite la Independence, la Kitty Hawk e oggi la George Washington. «Few years», quelche anno, avevano fatto sapere gli americani ai cittadini preoccupati di sapere per quanto tempo avrebbero dovuto convivere con il gigante del mare. Sono passati 35 anni. Suzuki, Niikura e compagni fanno i conti: sono 400 le manifestazioni organizzate dalla loro piccola flotta in vent'anni di attività. L'ultima, che ha raccolto 15mila partecipanti - record assoluto dagli anni '70 a oggi - risale al luglio scorso. Insieme alla Heiwasendan e ad altre organizzazioni cittadine sono scesi in piazza e usciti per mare i gruppi anti-nuclearisti, tradizionalmente combattivi e ben organizzati. A bordo di pescherecci, motoscafi, gommoni e barche a remi, protestavano contro l'arrivo della George Washington dopo che un incendio a bordo, lo scorso maggio, ha reso evidenti le scarse misure di sicurezza e la minaccia nucleare che la città galleggiante porta con sè. Inizialmente previsto per agosto, l'arrivo della George Washington è stato infatti posticipato a fine settembre in seguito al «piccolo incidente», com'era stato definito inizialmente dalle autorità americane. Un «fuocherello» scoppiato mentre la portaerei navigava verso il Giappone, dove tutto era pronto per l'accoglienza e le scavatrici stavano ultimando l'allargamento del molo numero 12 del porto di Yokosuka. Solo dopo di due mesi la marina statunitense ha dovuto ammettere che si era trattato di una cosa grave: danni per 70 milioni di dollari, ustionato un marinaio e ferito altri 36. Una premessa proccupante che ha mandato in allarme gli abitanti della città-porto, ma non le autorità nipponiche che continuano ancora oggi a sostenere l'assoluta sicurezza e la totale mancanza di pericolo della nuova inquilina. «Non un controllo, non una richiesta di indagini da parte delle autorità - ci dice incredulo Suzuki - il sindaco, anche dopo l'incidente, sostiene che non c'è pericolo perché questo hanno detto le autorità americane». Nucleare sicuro. Eppure, solo a pochi giorni dalla manifestazione di luglio, Washington ha dovuto comunicare al ministro degli esteri giapponese che un'altra loro imbarcazione, il sottomarino Houston, ha perso acqua radioattiva per mesi mentre navigava tra le Hawaii, Guam e il Giappone. Inizialmente pareva avesse sostato solo a Sasebo, nel sud del Giappone, e a Okinawa, ma qualcuno l'ha avvistato anche a Yokosuka. «L'abbiamo fotografato, quel sommergibile ha attraccato anche qui», dice Niikura mostrando l'immagine dello scafo a pelo d'acqua. A lui e ai suoi compagni non è sfuggito: ogni mattina, a turno, uno di loro fa il giro del porto con una piantina in mano e prende nota dei movimenti, segnando per filo e per segno le imbarcazioni attraccate. Una mappatura quotidiana delle postazioni nemiche. Anche allora il governo americano e quello giapponese avevano minimizzato: nessun problema, le quantità di materiale radioattivo non sono quantificabili ma sono certamente innoque. Vai a fidarti.

Lettera22

Nucleare, un scelta disastrosa

Nucleare, un scelta disastrosa

di Mario Agostinelli

Il Manifesto del 26/09/2008

Il nucleare non fornisce risposte convincenti all'emergenza climatica e il ricorso all'atomo potrebbe rivelarsi fatale per un'economia fragile. Eppure il «sentimento prevalente» del paese subisce la campagna del governo Berlusconi, sostenuta dall'opportunismo dei capofila dell'economia italiana.

1. Un'impresa dissennata. Secondo l'Ipcc al 2020 saremo già in piena emergenza climatica se non interverranno prima riduzione dei consumi e blocco delle emissioni di Co2. In tali tempi ravvicinati il ricorso al nucleare risulta pressoché ininfluente. A un impianto nucleare, con 40 anni di funzionamento previsto, occorrono i primi 9 anni di esercizio per pareggiare l'energia spesa nella costruzione. Tenuto conto di 4 anni di lavori e di 5 tra localizzazione e progettazione, un sistema che sviluppa 1 impianto/anno darebbe energia netta positiva solo dal 19° anno (anche nel piano di Scajola arriveremmo al 2028). Se si raggiungesse entro il 2030 l'obiettivo buttato lì da Berlusconi - il raddoppio nel mondo delle centrali nucleari esistenti - per le emissioni globali di Co2 la riduzione sarebbe solo del 5% . Occorrerebbe una nuova centrale ogni 2 settimane da qui al 2030, spendendo tra 1.000 e 2.000 miliardi di euro, aumentando il rischio di incidenti e aggravando la questione irrisolta delle scorie. Se poi guardassimo oltre il 2030, il nucleare dovrebbe arrivare a pesare almeno per il 20-25% del mix elettrico per rallentare il cambiamento climatico. Occorrerebbero almeno 3 mila centrali nucleari in più (oggi sono 439): 3 nuove centrali al mese fino a fine secolo, con prezzi alle stelle dell'uranio in via di esaurimento.

2. Clima e acqua : emergenze ambientali. Lungo l'intero ciclo di vita dell'uranio, dalla miniera al reattore, si registrano emissioni di Co2 inferiori, ma confrontabili con quelle che accompagnano il ciclo del gas naturale. Sono emissioni connesse all'esercizio della centrale, ma soprattutto alle fasi relative a costruzione, avvio, posizionamento in loco del combustibile fissile, che possono avvenire attualmente solo con l'impiego molto elevato di fonti fossili nell'area di costruzione e in miniera. Inoltre, agli impianti nucleari occorrono enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento, la cui produzione richiede carbone e petrolio. Sommando tutto, la Co2 emessa nel ciclo completo di un impianto nucleare corrisponde all'incirca al 40% di quella prodotta dal funzionamento di una centrale di pari potenza a gas naturale. Senza contare lo stoccaggio finale dei rifiuti, per cui mancano esempi. L'energia nucleare è destinata solo alla fornitura di elettricità, che conta per il 15% degli usi finali di energia nel mondo (il restante 85% va in trasporti, calore per riscaldamento e processi industriali). Un aspetto critico, spesso taciuto, nel processo nucleare è la quantità di acqua necessaria. Per evitare rischi di incidente catastrofico l'acqua ai reattori deve fluire, per asportare l'eccesso di calore, in volumi 10 volte superiori a quelli delle centrali tradizionali, con dispersione in vapore in aria e ritorno nel letto a elevata temperatura. Dove le filiere atomiche hanno subito una diffusione massiccia, come in Francia, la crisi idrica si è già manifestata. In questo paese il 40% di tutta l'acqua fresca consumata va a raffreddare reattori nucleari.

3. Sicurezza. Il nucleare comporta seri e irrisolvibili problemi di sicurezza. A 22 anni dall'incidente di Chernobyl, non esistono ancora garanzie né per la contaminazione «ordinaria» radioattiva da funzionamento, né per l'eliminazione del rischio di incidente nucleare catastrofico. Piccole dosi di radioattività nell'estrazione di uranio e durante il normale funzionamento delle centrali, non sono rilevabili in tempo reale, ma solo registrabili per accumulo a posteriori. Vi sono esposti i lavoratori, come nel caso dei tre recentissimi incidenti consecutivi di Tricastin , in Francia, e la popolazione che vive nei pressi della centrale, come nel caso recente, di Krsko, in Slovenia. In un processo di combustione, spegnendo l'impianto, cessa anche la produzione di calore. In una centrale nucleare, invece, anche quando la reazione a catena viene «spenta», i prodotti di fissione presenti nel nocciolo continuano a liberare calore. Se non può essere rimosso, questo determina la fusione del combustibile e il rilascio catastrofico di materiale radioattivo, che si disperde nello spazio e permane attivo nel tempo. E' un'eventualità insopprimibile di una probabilità di catastrofe prevista e connaturata alla progettazione, che rende imponderabile il rischio nucleare. Nonostante l'enfasi che si vuole porre su un'ipotetica «quarta generazione» operativa solo dopo il 2030 (?), con i reattori in grado di eliminare parte delle scorie (?), l'impiego di miscele di combustibile meno pericolose (?), oggi si possono realizzare solo centrali intrinsecamente insicure. Le scorie radioattive sono tra i problemi più noti in relazione alle centrali nucleari. Non esistono soluzioni concrete. Le circa 250 mila tonnellate di rifiuti radioattivi prodotte finora nel mondo sono tutte in attesa di siti di smaltimento definitivi. Il problema rimane senza soluzioni, producendo effetti incommensurabili sul piano economico. Sarebbe impossibile affrontarlo ex novo su scala nazionale e irresponsabile trascurarne le conseguenze. In Italia, però, nel governo nessuno si preoccupa delle scorie prodotte dall'ipotizzato piano nucleare.

4. Esauribilità e costi. Secondo le stime del World energy council , l'uranio estraibile a costi convenienti è pari a 3,5 milioni di tonnellate, a fronte di un consumo annuo di circa 70 mila tonnellate. Al ritmo attuale l'uranio è disponibile solo per 40-50 anni. Se aumentassero le centrali, inizierebbe una competizione internazionale per questa risorsa scarsa. Il ciclo nucleare ha costi diretti e indiretti troppo elevati, e perciò destinati a essere scaricati sulla collettività. Di fatto, il nucleare è la fonte energetica più costosa che ci sia. Negli ultimi anni, il prezzo dell'uranio è cresciuto di sei volte, passando da 20 $ per libbra del 2000 ai 120 $ del 2007 e si prevede salirà. Inoltre, gran parte del costo dell'elettricità da nucleare è legato alla progettazione e realizzazione delle centrali: il doppio di quanto ufficialmente dichiarato, per i tempi di ritorno di 20 anni. Aggiungendo anche i costi di smaltimento delle scorie e di decommissioning degli impianti, le cifre sono imprecisabili, ma più alte delle altre fonti. Il Kwh da nucleare risulta apparentemente poco costoso dove lo stato si fa carico di sicurezza, ricerca e inconvenienti di gestione, ma soprattutto delle scorie e smantellamento delle centrali. Sono proprio questi costi e la possibilità di ripensamento dei governi in crisi finanziaria, a aver scoraggiato gli investimenti privati negli ultimi decenni. Nel caso dell'Italia, nonostante la propaganda di Scajola e soci, il nucleare non consentirebbe di ridurre la bolletta energetica. Infatti, per un totale di 10-15mila Mw di potenza installata su una decina di impianti, occorrerebbe costruire da zero tutta la filiera, investendo tra i 30 e i 50 miliardi di euro (scorie escluse) con i primi ritorni solo dopo 15 o 20 anni e sicuramente bollette più salate.