Viene dal mare l'incubo nucleare
di Junko Terao
Il Manifesto del 19/09/2008
Paura atomica per 30 milioni di giapponesi: a fine settembre la superportaerei attraccherà a Yokosuka, il più grande porto militare del Pacifico occidentale. È in ritardo, per «un piccolo incendio»: 70 milioni di danni e 36 feriti
All'arrivo a Yokosuka il colpo d'occhio è impressionante. Lungo la Yokosuka sen, la linea del mare, quella che nei fine settimana estivi i tokyesi prendono in massa per andare a fare un tuffo, il treno corre lungo la costa, l'oceano sulla sinistra e i boschi fitti sulla destra, poi imbocca un tunnel e lo scenario cambia nel giro di un minuto. Pensi di arrivare in una città di mare come quelle appena lasciate alle spalle, lunghe spiagge di sabbia sovrastate da foreste e casette basse, e ti ritovi nel più grande porto militare del Pacifico occidentale. Diciotto punti di ormeggio, diciassette imbarcazioni da guerra tra portamissili, sommergibili e fregate. Ne manca solo una, la più grande e spaventosa, che arriverà a fine settembre: la George Washington, la prima portaerei americana a propulsione nucleare ad attraccare in modo permanente in una città-porto giapponese. A una manciata di minuti c'è Kamakura, l'antica capitale risparmiata dai bombardamenti americani, panorama decisamente più gentile rispetto a Tokyo e meta obbligata per i turisti stranieri in cerca dell'illusione del «Giappone autentico». A Yokosuka, invece, il sabato pomeriggio trovi solo gruppetti di soldati americani a riposo che aspettano il treno per andare a Roppongi, il quartiere delle meraviglie per gli stranieri della capitale. La città, 400mila abitanti, si affaccia su una baia interamente occupata dal porto militare in uso alla marina statunitense e alle Forze navali di autodifesa giapponesi. A ridosso del porto, la base militare Usa, costruita subito dopo la vittoria alleata nel '45. E' da qui che partono le navi da guerra dirette in Iraq e nell'Oceano indiano per le operazioni in Afghanistan. Ed è qui che il 25 settembre attraccherà la George Washington: 102mila tonnellate per 333 metri di lunghezza e un'altezza pari a un edificio di 24 piani. Un ponte di volo in grado di ospitare un'ottantina di aerei e alloggi per un equipaggio di 6.500 persone. Il tutto trasportato dalla forza di due reattori nucleari Westinghouse con un'autonomia di quasi 5 milioni di chilometri. Il mastodonte manderà in pensione la vecchia Kitty Hawk, a carburante convenzionale, che da tempo disturba il sonno dei cittadini di Yokosuka e quello di tutti gli abitanti dell'intera area metropolitana di Tokyo - circa trenta milioni - costretti per i decenni a vivere con l'incubo nucleare sotto casa. Una situazione imposta dall'alto, su cui nessuno - non i cittadini, non il sindaco e nemmeno il governo - ha potuto o voluto esprimersi. Il primo cittadino Kabaya Ryouichi, eletto nel 2005 col sostegno del Partito liberaldemocratico, ha accolto la decisione con rassegnata deferenza, come ha fatto il governo di Tokyo quando da Washington è arrivata la comunicazione dell'arrivo della portaerei. Solo alcuni tra gli abitanti più combattivi della città-porto si sono organizzati in gruppi di protesta, e da tempo combattono come possono. «Per due volte abbiamo raccolto migliaia di firme e chiesto formalmente al consiglio comunale di fare un referendum per chiedere l'opinione dei cittadini, ma ce l'hanno sempre respinto», ci racconta Shigeki Suzuki, tassista sulla sessantina e presidente della Heiwasendan, letteralmente «flotta di pace», associazione di una ventina di membri che organizza manifestazioni per mare. Ogni volta che una nave o un sottomarino lasciano il porto o rientrano, l'equipaggio pacifista parte a bordo di gommoni o motoscafi a guastare le manovre. Microscopici pesci contro una balena, ma «bisogna evitare il silenzio, è importante che si sappia che non accettiamo tutto questo senza battere ciglio», spiega Hiroshi Niikura, tipografo, attivista pacifista fin dai tempi delle lotte del Sessantotto giapponese. Allora si pensava ci fosse ancora qualcosa in gioco: contro il rinnovo del trattato di sicurezza nippo-americano, contro la guerra del Vietnam - le navi americane partivano da Yokosuka, come quelle per la Corea - contro la costruzione dell'aeroporto di Narita. Nel frattempo, a Yokosuka, alcuni irriducibili combattevano la loro inutile battaglia contro il coinquilino sempre più ingombrante: la base americana e le gigantesche portaerei che a partire dal 1973, con la Midway, hanno ininterrottamente fatto parte del panorama della città. Eppure, allora, nessuno aveva detto che alla Midway sarebbero seguite la Independence, la Kitty Hawk e oggi la George Washington. «Few years», quelche anno, avevano fatto sapere gli americani ai cittadini preoccupati di sapere per quanto tempo avrebbero dovuto convivere con il gigante del mare. Sono passati 35 anni. Suzuki, Niikura e compagni fanno i conti: sono 400 le manifestazioni organizzate dalla loro piccola flotta in vent'anni di attività. L'ultima, che ha raccolto 15mila partecipanti - record assoluto dagli anni '70 a oggi - risale al luglio scorso. Insieme alla Heiwasendan e ad altre organizzazioni cittadine sono scesi in piazza e usciti per mare i gruppi anti-nuclearisti, tradizionalmente combattivi e ben organizzati. A bordo di pescherecci, motoscafi, gommoni e barche a remi, protestavano contro l'arrivo della George Washington dopo che un incendio a bordo, lo scorso maggio, ha reso evidenti le scarse misure di sicurezza e la minaccia nucleare che la città galleggiante porta con sè. Inizialmente previsto per agosto, l'arrivo della George Washington è stato infatti posticipato a fine settembre in seguito al «piccolo incidente», com'era stato definito inizialmente dalle autorità americane. Un «fuocherello» scoppiato mentre la portaerei navigava verso il Giappone, dove tutto era pronto per l'accoglienza e le scavatrici stavano ultimando l'allargamento del molo numero 12 del porto di Yokosuka. Solo dopo di due mesi la marina statunitense ha dovuto ammettere che si era trattato di una cosa grave: danni per 70 milioni di dollari, ustionato un marinaio e ferito altri 36. Una premessa proccupante che ha mandato in allarme gli abitanti della città-porto, ma non le autorità nipponiche che continuano ancora oggi a sostenere l'assoluta sicurezza e la totale mancanza di pericolo della nuova inquilina. «Non un controllo, non una richiesta di indagini da parte delle autorità - ci dice incredulo Suzuki - il sindaco, anche dopo l'incidente, sostiene che non c'è pericolo perché questo hanno detto le autorità americane». Nucleare sicuro. Eppure, solo a pochi giorni dalla manifestazione di luglio, Washington ha dovuto comunicare al ministro degli esteri giapponese che un'altra loro imbarcazione, il sottomarino Houston, ha perso acqua radioattiva per mesi mentre navigava tra le Hawaii, Guam e il Giappone. Inizialmente pareva avesse sostato solo a Sasebo, nel sud del Giappone, e a Okinawa, ma qualcuno l'ha avvistato anche a Yokosuka. «L'abbiamo fotografato, quel sommergibile ha attraccato anche qui», dice Niikura mostrando l'immagine dello scafo a pelo d'acqua. A lui e ai suoi compagni non è sfuggito: ogni mattina, a turno, uno di loro fa il giro del porto con una piantina in mano e prende nota dei movimenti, segnando per filo e per segno le imbarcazioni attraccate. Una mappatura quotidiana delle postazioni nemiche. Anche allora il governo americano e quello giapponese avevano minimizzato: nessun problema, le quantità di materiale radioattivo non sono quantificabili ma sono certamente innoque. Vai a fidarti.
Lettera22
di Junko Terao
Il Manifesto del 19/09/2008
Paura atomica per 30 milioni di giapponesi: a fine settembre la superportaerei attraccherà a Yokosuka, il più grande porto militare del Pacifico occidentale. È in ritardo, per «un piccolo incendio»: 70 milioni di danni e 36 feriti
All'arrivo a Yokosuka il colpo d'occhio è impressionante. Lungo la Yokosuka sen, la linea del mare, quella che nei fine settimana estivi i tokyesi prendono in massa per andare a fare un tuffo, il treno corre lungo la costa, l'oceano sulla sinistra e i boschi fitti sulla destra, poi imbocca un tunnel e lo scenario cambia nel giro di un minuto. Pensi di arrivare in una città di mare come quelle appena lasciate alle spalle, lunghe spiagge di sabbia sovrastate da foreste e casette basse, e ti ritovi nel più grande porto militare del Pacifico occidentale. Diciotto punti di ormeggio, diciassette imbarcazioni da guerra tra portamissili, sommergibili e fregate. Ne manca solo una, la più grande e spaventosa, che arriverà a fine settembre: la George Washington, la prima portaerei americana a propulsione nucleare ad attraccare in modo permanente in una città-porto giapponese. A una manciata di minuti c'è Kamakura, l'antica capitale risparmiata dai bombardamenti americani, panorama decisamente più gentile rispetto a Tokyo e meta obbligata per i turisti stranieri in cerca dell'illusione del «Giappone autentico». A Yokosuka, invece, il sabato pomeriggio trovi solo gruppetti di soldati americani a riposo che aspettano il treno per andare a Roppongi, il quartiere delle meraviglie per gli stranieri della capitale. La città, 400mila abitanti, si affaccia su una baia interamente occupata dal porto militare in uso alla marina statunitense e alle Forze navali di autodifesa giapponesi. A ridosso del porto, la base militare Usa, costruita subito dopo la vittoria alleata nel '45. E' da qui che partono le navi da guerra dirette in Iraq e nell'Oceano indiano per le operazioni in Afghanistan. Ed è qui che il 25 settembre attraccherà la George Washington: 102mila tonnellate per 333 metri di lunghezza e un'altezza pari a un edificio di 24 piani. Un ponte di volo in grado di ospitare un'ottantina di aerei e alloggi per un equipaggio di 6.500 persone. Il tutto trasportato dalla forza di due reattori nucleari Westinghouse con un'autonomia di quasi 5 milioni di chilometri. Il mastodonte manderà in pensione la vecchia Kitty Hawk, a carburante convenzionale, che da tempo disturba il sonno dei cittadini di Yokosuka e quello di tutti gli abitanti dell'intera area metropolitana di Tokyo - circa trenta milioni - costretti per i decenni a vivere con l'incubo nucleare sotto casa. Una situazione imposta dall'alto, su cui nessuno - non i cittadini, non il sindaco e nemmeno il governo - ha potuto o voluto esprimersi. Il primo cittadino Kabaya Ryouichi, eletto nel 2005 col sostegno del Partito liberaldemocratico, ha accolto la decisione con rassegnata deferenza, come ha fatto il governo di Tokyo quando da Washington è arrivata la comunicazione dell'arrivo della portaerei. Solo alcuni tra gli abitanti più combattivi della città-porto si sono organizzati in gruppi di protesta, e da tempo combattono come possono. «Per due volte abbiamo raccolto migliaia di firme e chiesto formalmente al consiglio comunale di fare un referendum per chiedere l'opinione dei cittadini, ma ce l'hanno sempre respinto», ci racconta Shigeki Suzuki, tassista sulla sessantina e presidente della Heiwasendan, letteralmente «flotta di pace», associazione di una ventina di membri che organizza manifestazioni per mare. Ogni volta che una nave o un sottomarino lasciano il porto o rientrano, l'equipaggio pacifista parte a bordo di gommoni o motoscafi a guastare le manovre. Microscopici pesci contro una balena, ma «bisogna evitare il silenzio, è importante che si sappia che non accettiamo tutto questo senza battere ciglio», spiega Hiroshi Niikura, tipografo, attivista pacifista fin dai tempi delle lotte del Sessantotto giapponese. Allora si pensava ci fosse ancora qualcosa in gioco: contro il rinnovo del trattato di sicurezza nippo-americano, contro la guerra del Vietnam - le navi americane partivano da Yokosuka, come quelle per la Corea - contro la costruzione dell'aeroporto di Narita. Nel frattempo, a Yokosuka, alcuni irriducibili combattevano la loro inutile battaglia contro il coinquilino sempre più ingombrante: la base americana e le gigantesche portaerei che a partire dal 1973, con la Midway, hanno ininterrottamente fatto parte del panorama della città. Eppure, allora, nessuno aveva detto che alla Midway sarebbero seguite la Independence, la Kitty Hawk e oggi la George Washington. «Few years», quelche anno, avevano fatto sapere gli americani ai cittadini preoccupati di sapere per quanto tempo avrebbero dovuto convivere con il gigante del mare. Sono passati 35 anni. Suzuki, Niikura e compagni fanno i conti: sono 400 le manifestazioni organizzate dalla loro piccola flotta in vent'anni di attività. L'ultima, che ha raccolto 15mila partecipanti - record assoluto dagli anni '70 a oggi - risale al luglio scorso. Insieme alla Heiwasendan e ad altre organizzazioni cittadine sono scesi in piazza e usciti per mare i gruppi anti-nuclearisti, tradizionalmente combattivi e ben organizzati. A bordo di pescherecci, motoscafi, gommoni e barche a remi, protestavano contro l'arrivo della George Washington dopo che un incendio a bordo, lo scorso maggio, ha reso evidenti le scarse misure di sicurezza e la minaccia nucleare che la città galleggiante porta con sè. Inizialmente previsto per agosto, l'arrivo della George Washington è stato infatti posticipato a fine settembre in seguito al «piccolo incidente», com'era stato definito inizialmente dalle autorità americane. Un «fuocherello» scoppiato mentre la portaerei navigava verso il Giappone, dove tutto era pronto per l'accoglienza e le scavatrici stavano ultimando l'allargamento del molo numero 12 del porto di Yokosuka. Solo dopo di due mesi la marina statunitense ha dovuto ammettere che si era trattato di una cosa grave: danni per 70 milioni di dollari, ustionato un marinaio e ferito altri 36. Una premessa proccupante che ha mandato in allarme gli abitanti della città-porto, ma non le autorità nipponiche che continuano ancora oggi a sostenere l'assoluta sicurezza e la totale mancanza di pericolo della nuova inquilina. «Non un controllo, non una richiesta di indagini da parte delle autorità - ci dice incredulo Suzuki - il sindaco, anche dopo l'incidente, sostiene che non c'è pericolo perché questo hanno detto le autorità americane». Nucleare sicuro. Eppure, solo a pochi giorni dalla manifestazione di luglio, Washington ha dovuto comunicare al ministro degli esteri giapponese che un'altra loro imbarcazione, il sottomarino Houston, ha perso acqua radioattiva per mesi mentre navigava tra le Hawaii, Guam e il Giappone. Inizialmente pareva avesse sostato solo a Sasebo, nel sud del Giappone, e a Okinawa, ma qualcuno l'ha avvistato anche a Yokosuka. «L'abbiamo fotografato, quel sommergibile ha attraccato anche qui», dice Niikura mostrando l'immagine dello scafo a pelo d'acqua. A lui e ai suoi compagni non è sfuggito: ogni mattina, a turno, uno di loro fa il giro del porto con una piantina in mano e prende nota dei movimenti, segnando per filo e per segno le imbarcazioni attraccate. Una mappatura quotidiana delle postazioni nemiche. Anche allora il governo americano e quello giapponese avevano minimizzato: nessun problema, le quantità di materiale radioattivo non sono quantificabili ma sono certamente innoque. Vai a fidarti.
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