giovedì 19 giugno 2008

1300 scienziati: «Scelte sbagliate. Coinvolgeteci», Appello al governo sulle politiche energetiche

1300 scienziati: «Scelte sbagliate. Coinvolgeteci»

Liberazione del 17/06/2008

Appello al governo sulle politiche energetiche

«Uno dei problemi più delicati e più difficili che il nostro Paese ha oggi di fronte è quello dell'energia; le decisioni che verranno prese a questo riguardo condizioneranno non solo la nostra vita, ma ancor più quella dei nostri figli e dei nostri nipoti. Per prendere decisioni sagge su un tema così complesso è necessaria una forte collaborazione fra scienza e politica.
Siamo un gruppo di docenti e ricercatori di Università e Centri di ricerca e, in virtù della conoscenza acquisita con i nostri studi e la quotidiana consultazione della letteratura scientifica internazionale, abbiamo sentito il dovere di esprimere la nostra opinione sul problema energetico con l'appello riportato sul sito: www.energiaperilfuturo.it
L'appello, sottoscritto da più di milleduecento docenti e ricercatori, sottolinea l'urgenza che nel Paese aumenti la consapevolezza riguardo la gravità della crisi energetica e climatica, insiste sulla necessità del risparmio e di un uso più efficiente dell'energia ed esorta il governo a sviluppare l'uso delle energie rinnovabili ed in particolare dell'energia solare.
A nostro parere l'opzione nucleare non può essere considerata la soluzione del problema energetico per molti motivi: necessità di enormi finanziamenti pubblici, insicurezza intrinseca della filiera tecnologica, difficoltà a reperire depositi sicuri per le scorie radioattive, stretta connessione tra nucleare civile e militare, possibile bersaglio per attacchi terroristici, aumento delle disuguaglianze tra paesi tecnologicamente avanzati e paesi poveri, scarsità di combustibili nucleari.
La più grande risorsa energetica del nostro pianeta è il Sole, una fonte che durerà per 4 miliardi di anni, una stazione di servizio sempre aperta che invia su tutti i luoghi della Terra un'immensa quantità di energia, 10mila0 volte quella che l'umanità intera consuma. Sviluppare l'uso dell'energia solare e delle altre energie rinnovabili significa guardare lontano, che è la qualità distintiva dei veri statisti. E' un guardare lontano nel tempo, perché getta le basi per un positivo sviluppo tecnologico, industriale ed occupazionale del nostro Paese, senza porre pericolosi fardelli sulle spalle delle prossime generazioni. E' un guardare lontano nel mondo, perché, a differenza dei combustibili fossili e dell'uranio, l'energia
solare e le altre energie rinnovabili sono presenti in ogni luogo della Terra e, quindi, il loro sviluppo contribuirà al superamento delle disuguaglianze e al consolidamento della pace. Saremo ben lieti di mettere a disposizione le nostre competenze per discutere il problema energetico in modo approfondito nelle sedi opportune».
Firmato: Vincenzo Balzani (Università di Bologna), Vincenzo Aquilanti (Università di Perugia), Nicola Armaroli (Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna), Ugo Bardi (Università di Firenze), Salvatore Califano (Università di Firenze), Sebastiano Campagna (Università di Messina), Luigi Fabbrizzi (Università di Pavia), Michele Floriano (Università di Palermo), Giovanni Giacometti (Università di Padova), Elio Giamello (Università di Torino), Giuseppe Grazzini (Università di Firenze), Francesco Lelj Garolla (Università della Basilicata), Luigi Mandolini (Università La Sapienza, Roma), Giovanni Natile (Università di Bar), Giorgio Nebbia (Università di Bari), Gianfranco Pacchioni (Università Milano-Bicocca), Paolo Rognini, (Università di Pisa), Renzo Rosei (Università di Trieste), Franco Scandola (Università di Ferrara), Rocco Ungaro (Università di Parma)... e altri 1278 scienziati (fino a ieri).
E' questo l'appello - che pubblichiamo per intero - lanciato ieri da alcuni dei più famosi scienziati del paese, con una lettera a Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, al Ministro dello Sviluppo Economico e Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca. Lo possono firmare tutti (già circa 5mila cittadini l'hanno fatto), ma ovviamente la sua "caratura" è quella delle comunità scientifica. A partire dal promotore dell'iniziativa, Vincenzo Balzani, docente di Chimica Generale ed Inorganica all'Università di Bologna, uno dei più noti internazionalmente e rigorosi studiosi italiani. La lettera si intitola: "Appello dei docenti e ricercatori delle Università e Centri di ricerca Italiani ai Candidati alla guida del paese, affinché vengano prese decisioni sagge e coraggiose per la politica energetica italiana" e il suo senso è ben rappresentato dalla frase del premio Nobel per la Chimica del 1991, Richard R. Ernst, posta come sorta di ex-ergo sul sito: "Chi altri, se non gli scienziati, è responsabile per stabilire le linee guida che definiscono il progresso e per proteggere gli interessi delle generazioni future?".

Oggi Scajola sdogana il nucleare

Oggi Scajola sdogana il nucleare

di C. L.
Il Manifesto del 18/06/2008

Alla fine il momento è arrivato. Cacciato definitivamente il fantasma di Chernobyl, accantonati con prepotenza i dubbi sui vantaggi che davvero potrebbero derivare dall'atomo, oggi l'Italia si prepara a riaprire ufficialmente le sue porte al nucleare. Il via lo darà nel pomeriggio il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola, presentando in consiglio dei ministri un pacchetto di norme che serviranno a sbloccare la costruzione di impianti atomici nel nostro paese, ventuno anni dopo che il referendum del 1987 li aveva messi al bando. «Dobbiamo superare i vecchi ideologismi, che nulla hanno a che fare con la concretezza del problema», ha spiegato lunedì Scajola parlando all'assemblea milanese di Federchimica. Ma non tutti sono d'accordo. Proprio in queste ore, infatti, al premier Silvio Berlusconi è stata recapitata una lettera aperta nella quale più di 1.200 scienziati gli chiedono di non rilanciare il nucleare, mentre per oggi pomeriggio alle 17 Legambiente, Greenpeace e Wwf hanno indetto un sit in davanti a Montecitorio per contestare quella che definiscono come una scelta «arretrata, antieconomica e insicura».
Il governo si prepara dunque a mantenere la parola data solo poche settimane fa all'assemblea di Confindustria, quando lo stesso Scajola annunciò di voler arrivare, «entro la fine della legislatura», alla posa delle prima pietra per la costruzione delle prime centrali che, stando ad alcune anticipazioni, dovrebbero essere almeno quattro. Le nuove misure sugli impianti nucleari sono inserite nel pacchetto energia della manovra finanziaria e prevedono incentivi per le popolazioni che accetteranno di convivere con una centrale. In particolare si pensa a un taglio delle bollette elettriche, i cui costi sarebbero a carico delle società coinvolte nella costruzione o nella gestione degli impianti.
Ma come prima cosa il governo dovrà individuare i siti in cui aprire i nuovi cantieri. E qui le cose potrebbero complicarsi, fino al punto di rivedere le stesse proteste avute in Campania con le discariche per i rifiuti. E forse proprio per ritardare al massimo possibili momenti di tensione, il governo ha deciso di far slittare alla fine dell'anno l'individuazione dei criteri, morfologici e geologici, che dovranno avere i nuovi siti. Nel frattempo verrà creato un comitato di saggi che avrà il compito di aprire un primo confronto con le popolazioni e gli enti locali. Ma che aria tira, lo si è già capito. Il piano deve infatti ancora vedere la luce e Scajola ha già dovuto digerire due no. Il primo è arrivato dal governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, per il quale «qualunque discorso su localizzazioni in Lombardia è del tutto prematuro». Il secondo è invece dell'assessore all'Ecologia della Regione Puglia. «In materia energetica - ha detto Michele Losappio - la Puglia ha, verso lo Stato, solo crediti da riscuotere. Ci aspettiamo pertanto un impegno che escluda la nostra Regione dalle possibili destinazioni del nucleare».
Almeno sulla carta tutto sembra comunque essere pronto. L'obiettivo del governo, annunciato da Scajola e confermato ieri anche dal ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo, è quello di diversificare la produzione di energia elettrica, puntando su un 25% frutto del nucleare, un altro 25% derivante da energie alternative e su un 50% dai combustibili fossili. Un piano che piace al presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che non ha perso occasione per ribadire ancora una volta il suo appoggio alla scelta nucleare di palazzo Chigi.

L’eredità pesante del nucleare

L’eredità pesante del nucleare

Il Manifesto del 19 giugno 2008, pag. 2

di Giorgio Solvetti

«Chi mangia, poco o tanto, caga». Non è un’espressione da ingegnere nucleare, specie se pronunciata con accento piacentino, ma rende bene l’idea. I lavoratori della centrale in dismissione di Caorso tendenzialmente non riescono a essere contro il nucleare, ma una cosala ammettono senza problemi: non esiste un nucleare, di nessuna generazione, che non produca scorie. Lo sanno bene perché tutti i giorni sono impegnati nello smantellamento della vecchia centrale. Per Caorso sono giornate strane. Dopo 20 anni dalla chiusura della centrale seguita al referendum che pose fine al nucleare in Italia, solo da dicembre si sta finalmente procedendo al trasferimento delle barre di uranio radioattive che alimentavano il reattore. E intanto il governo Berlusconi annuncia di voler puntare nuovamente sull’energia atomica. «Arturo», questo il nome del vecchio reattore, non potrà mai più essere utilizzato, ma l’area della vecchia centrale sarà tra le prime ad essere presa in esame qualora si volessero davvero progettare nuovi impianti nucleari. «Ma come - dice Gianni, il barista del paese - hanno costruito la centrale, poi l’hanno chiusa, dal 1987 ad oggi non siamo ancora riusciti a liberarci delle scorie, e parlano ancora di nuove centrali?».



1977, nasce «Arturo»

Quello di Caorso è il più recente reattore nucleare realizzato in Italia. La tecnologia e la formazione erano state fornite dagli Usa. A quei tempi l’Italia era all’avanguardia per il nucleare, disponeva dì 4 centrali. Caorso ha raggiunto la «prima criticità», ovvero si è acceso, nel 1977. L’anno dopo ha cominciato a dare energia alla rete elettrica nazionale. E’ rimasto in «rodaggio» fino al 1980, poi è entrato in funzione a pieno regime. «Abbiamo fatto anche alcuni record in Europa», dicono orgogliosi i lavoratori più anziani. In totale la centrale ha prodotto 29 miliardi di chilowatt. Dopo il referendum dell’87 l’impianto è stato messo in stand-by: si praticavano controlli e manutenzione ma non veniva più acceso. Solo nel 1990 è stata disposta la definitiva chiusura. Ma la dismissione è andata molto a rilento. Nessuno sapeva che farne della centrale e del materiale radioattivo che conteneva. Nel 1999 l’impianto è passato dall’Enel alla Sogin, la società che ha il compito di smantellare le vecchie centrali. Ma tutto è rimasto fermo fino al 2003.



2003, comincia l’agonia

Nel corso degli anni la gestione di Sogin ha sollevato perplessità. Con il governo Prodi il cda della società è stato rimpiazzato e lo smantellamento, il cosiddetto decomissioning, è finalmente iniziato. Nel 2003 le barre di uranio sono state tolte dal reattore e immerse in speciali piscine, in attesa che il governo trovasse un sito nazionale per lo stoccaggio di materiale radioattivo. Dopo il fallimento dell’ipotesi Scanzano, è stato necessario fare un accordo con una società francese. E solo da dicembre le barre vengono spedite in Normandia, dove vengono trattate. Ma è solo una soluzione temporanea perché, prima o poi, le barre verranno riconsegnate all’Italia che ancora non sa dove metterle. Un parcheggio a tempo da centinaia di milioni di euro (finanziato con le nostre bollette della luce). Inoltre, nella centrale rimangono due «cimiteri» dove sono stoccati 10 mila fusti che contengono materiali contaminati. Per ora è stata smontata solo la turbina, ripulita nella superficie contaminata. Per il reattore le cose sono più complesse perché si tratta di materiale irradiato in profondità, molto difficile da bonificare. Che farne? Nessuno la sa.



2007, il reattore viene smontato

«Stiamo facendo tutto il possibile per trasferire le barre in Francia - spiegano alla Sogin - abbiamo deciso una forte accelerazione delle operazioni». Lo sa bene Mario Cabrini della Filcem Cgil di Piacenza. «Con il cambiamento al vertice di Sogin le cose sono andate decisamente meglio, finalmente hanno davvero cominciato il lavoro per cui sono nati. Da dicembre sono state trasportate in Francia 158 barre su un totale di 1052. La paura del paese e dei lavoratori è che una volta finito il trasferimento delle barre tutto si fermi di nuovo. Le operazioni per sanare completamente il territorio durerebbero minimo altri 15 anni e costerebbero molti soldi. Dunque è possibile che una volta rimosso il pericolo pressante della barre non si abbia la volontà di procedere oltre. Anche per i lavoratori diminuirebbe il potere contrattuale. Quando la centrale funzionava erano 450, ora sono 120, molti sono prossimi alla pensione, altri vengono incentivati ad andare in pensione. Chi farà il lavoro? Se poi si parla di nucleare di nuova generazione bisogna rendersi conto che non c’è più personale preparato. Bisognerebbe ricominciare tutto da capo». Il trasferimento delle barre comporta un lavoro molto complesso. Alla stazione di Caorso arrivano contenitori pesanti diverse tonnellate, detti cask. Dopo innumerevoli controlli i task vengono appesi a una gru e immersi nelle piscine dove sono stoccate le barre. Solo sott’acqua vengono riempiti. Se una barra emergesse dall’acqua ucciderebbe tutti i presenti. Se un cask cadesse sarebbe un disastro totale. E’ una procedura delicata che richiede la massima attenzione, una cosa che mal si concilia con la pressione impostata dall’accelerazione dei trasferimenti voluta da Sogin.



2008, ««Arturo2», la resurrezione?

In Italia non si sa dove mettere le scorie nucleari, a Caorso ci sono voluti 20 anni per cominciare con mille cautele a smantellare la vecchia centrale. Si sono perse competenze e tecnologie per ipotizzare la costruzione e la gestione di nuove centrali. Come si può riparlare di nucleare, specialmente a Caorso? Eppure, sin dalla costruzione della centrale, era stato previsto un secondo reattore che avrebbe dovuto sorgere dove ora ci sono i «cimiteri» dei fusti contaminati. Per questo Caorso sarebbe tra i primi candidati in caso di un rilancio del nucleare italiano: realizzare una centrale a fianco di quella vecchia permetterebbe di aggirare difficoltà burocratiche e risparmiare sui nuovi studi del territorio.


Che ne pensano da queste parti? Il motto è «Caorso ha già dato». Il sindaco Fabio Callori (Fi) chiede innanzitutto che venga completato lo smantellamento, anche se non chiude del tutto la porta al nucleare: «Solo dopo la fine del decomissioning si può riaprire il confronto». Lo spavento di Chernobyl a Caorso non è mai stato dimenticato. «Dopo Chernobyl - racconta Franco, un vecchio lavoratore della centrale - erano quelli che venivano da fuori a far scattare gli allarmi. L’erba dei nostri prati era più radioattiva della centrale». A Caorso però non ci sono mai stati incidenti e la centrale vuol dire soldi. Gino adesso abita a Zerbio, meno di un chilometro da Arturo. «Se vogliono rifare centrali questa volta vadano da un’altra parte». Poi ci ripensa, «o per lo meno mi diano 100 mila euro». La figlia, è anche lei contraria «a meno che non mi assumano il figlio». Giuseppina ha settant’anni, vive con la centralina dell’Arpa che misura la radioattività della sua insalata, eppure a lei basta che «le cose siano fatte bene». La interrompe la vicina: «Siamo in Italia, non mi fido, ci hanno lasciato qui con ‘sta cattedrale nel deserto per 20 anni piena di barre radioattive, come si fa a pensare che le cose possano essere fatte bene? E poi con il nucleare non si scherza, per quanti controlli ci siano, il rischio è troppo alto. Ci ha contaminato una centrale in Russia, figurati una centrale che sta a meno di un chilometro da casa mia. Non la voglio».

Dove il vento tira forte

Dove il vento tira forte

Il Manifesto del 19 giugno 2008, pag. 2

di Manuela Cartosio

Si chiama "Principessa Amanda", come la primogenita della famiglia reale, e le sue pale hanno cominciato a girare un paio di settimane fa. E’ la centrale eolica off-shore (oltre le 12 miglia delle acque territoriali) più grande dei mondo. E’ stata realizzata in Olanda, paese che ha quattro icone; i tulipani, le biciclette, le dighe e i mulini e vento.



La maxi centrale è situata in corrispondenza della città di Ijmuiden a 23 chilometri dalla costa olandese dove l’acqua ha una profondità tra i 19 e i 24 metri. Ai record della distanza e della profondità la "Principessa Amanda" aggiunge quello della potenza. Le sue 60 turbine da 2Megawatt saranno in grado di coprire il fabbisogno elettrico di 125mila famiglie, evitando l’emissione di 225 mila tonnellate di anidride carbonica l’anno. La wind farm, realizzata dal gruppo olandese Econcem insieme ad Eneco, è stata finanziata da grandi banche tra cui figurano Dexia, Rabobank e Bnp Paribas. Secondo queste ultime, gli introiti provenienti dell’attività della centrale basteranno a coprire per intero rate e interessi dei finanziamento, senza che siano necessarie nuove iniezioni di capitale da parte degli azionisti. E’ un indizio che sembra diradare i dubbi sugli alti costi delle centrali eoliche off-shore. Costi a parte, restano le riserve di una parte degli ambientalisti che temono non tanto il danno paesaggistico quanto lo scombussolamento dei fondali e della fauna marina. Il Mare dei Nord non è l’ideale per le vacanze. In compenso, con i suoi venti forti e costanti è l’ideale per generare energia. «Sfruttando solo il 9% del potenziale del Mare del Nord potremmo fornire energia pulita a tutti i paesi confinanti», afferma il presidente di Econcem che progetta di costruire ogni anno una nuova centrale eolica off-shore." Il dio Eolo ha conquistato anche la Gran Bretagna. Il governo di Gordon Brown intende triplicare la quantità di energia eolica prodotta e ha annunciato commesse per 11 nuove centrali off-shore. Entro il 2020, data entro la quale i paesi della Ue dovranno derivare almeno il 20% dell’energia da fonti rinnovabili, l’energia eolica generata in Gran Bretagna sarà equivalente a un quarto dei fabbisogno nazionale di elettricità. II Crown Estate, l’ente governativo responsabile dei fondali marini, ha già individuato gli 11 siti, scelti sia per la forza dei vento che perla facilità di collegamento con la rete elettrica. La British Wind Energy Association, forse gonfiando un po’ le rosee previsioni; stima che già tra cinque anni le centrali eoliche produrranno più energia di quelle atomiche. Attualmente il nucleare copre il 19% dei fabbisogno britannico. li sorpasso comunque è plausibile perché nei prossimi anni andranno in pensione alcuni vecchi impianti nucleari mentre ci vorrà molto tempo prima che diventino operative le mitiche centrali atomiche di quarta generazione Approvate pure quelle dal governo laburista che con una mano spinge sull’eolico e con l’altra non molla il nucleare. Di qui il dubbio che l’ostinazione sull’atomo finisca per sottrarre risorse alle fonti rinnovabili.



Mentre la ricerca sulle tecnologie per ricavare energia dalle maree e dal moto ondoso hanno subito una battuta d’arresto, la domanda di centrali eoliche è lievitata a tal punto che le uniche due società europee produttrici di turbine eoliche (la danese Vestas e la tedesca Siemens) non riescono a soddisfare gli ordini. Anche in Gran Bretagna c’è chi considera «molto remota» la prospettiva di ricavare utili dal vento marino. Tra chi lo sostiene c’è la lobby del nucleare, che dà utili a patto di trascurare il piccolo ed eterno problema dello smaltimento delle scorie.

Dubbi e promesse I dieci punti aperti del nucleare

Dubbi e promesse I dieci punti aperti del nucleare

Corriere della Sera Magazine del 19 giugno 2008, pag. 47

di Sara Gandolfi

Per gli addetti ai lavori è «un paradiso incastonato tra il blu del mare e il verde dei boschi». Un paradiso nucleare. «Due reattori sono già in funzione, uno di ultima generazione è in costruzione e presto potrebbe arrivarne un quarto. Hanno un sito per i rifiuti a bassa e media attività, la piscina per lo stoccaggio temporaneo del combustibile esaurito e stanno studiando il deposito geologico profondo per i rifiuti ad alta attività. Una soluzione retrivable: le scorie sono stivate 500 metri sotto il suolo ma se tra 20 o 50 anni si troverà il modo per "bruciarle" i finlandesi potranno andare a riprenderle. E la popolazione è d’accordo». Marco Ricotti, docente di ingegneria nucleare al Politecnico di Milano, poche settimane fa ha partecipato al tour guidato organizzato dalla Regione Lombardia a Olkiluoto-3, primo impianto del "rinascimento nucleare", costruito su un isolotto lungo la costa meridionale del Paese scandinavo. "Paradisi" simili stanno lentamente (ri)sorgendo in vari angoli del globo. Un trend che, al di là dei presunti vantaggi economici o ambientali ancora da dimostrare appieno, troverebbe la sua più urgente ragion d’essere nella crisi dei prezzi dei combustibili fossili e nell’instabilità (se non ostilità) politica delle aree dove essi si trovano. In Asia, poi, la spinta al nucleare ha le dimensioni di un’ondata: 6 reattori in costruzione in Cina, 6 in India, 3 in Corea,1 in Giappone,1 in Pakistan secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). Un carro in corsa sul quale il governo Berlusconi vuoi far salire anche l’Italia, tra i primi Paesi a scegliere il nucleare civile - è del 1963 l’impianto di latina - finché il referendum dell’87 spense le centrali. «Per il 2013 creeremo le condizioni perché venga messa la prima pietra di un gruppo di centrali di nuova generazione», ha sostenuto il ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola. Ventun anni dopo, smaltita ma non del tutto la paura di una seconda Chernobyl, quali opzioni ha davanti a sé l’Italia, quali i possibili rischi?



EVOLUZIONE IN TRE TAPPE

«Quasi tutti i 439 reattori a uso civile funzionanti oggi nel mondo appartengono alla cosiddetta Il generazione, reattori sicuri che nulla hanno a che vedere con Chernobyl», chiarisce Stefano Monti, responsabile Enea perla definizione dei programmi di ricerca e sviluppo sulla fissione; «anche in seguito all’incidente del 1986, irripetibile perché avvenuto in un impianto obsoleto e privo di contenitore, c’è stata comunque una forte spinta a investire in reattori sempre più sicuri: la III generazione di cui si vedono oggi le prime realizzazioni». Come l’Epr della franco-tedesca Areva (Olkiluoto-3 sarà seguito da un impianto a Flamanville, Francia), l’Apl000 della nippo-americana Westinghouse-Toshiba o l’Abwr della Mitsubishi-General Electric.



Per stessa ammissione dei costruttori, Epr e i suoi fratelli sono un’evoluzione, non una rivoluzione, dei reattori precedenti: riducono i costi grazie alla maggiore flessibilità operativa e a un uso più efficiente del combustibile, sia esso uranio arricchito 235 o una miscela di ossidi di uranio e di plutonio (MOx) prodotta dagli impianti di riprocessamento (vedi più avanti). In più sono dotati di una serie di dispositivi di tipo passivo, che non richiedono cioè l’intervento di un operatore, destinati a mettere in sicurezza gli impianti anche in caso di eventi estremi. Progetti di nuova concezione cui partecipa anche l’Italia: Ansaldo produce i contenitori di sicurezza dell’Ap1000 mentre Enel ha una quota del 12,5% nel progetto di Flamanville (e manda tirocinanti in loco).



PROBLEMA RIFIUTI

Il nucleare non emette gas climalteranti (eccetto il vapore acqueo delle torri di raffreddamento, che comunque condensa in poco tempo) ma, che si tratti di II o III generazione, produce rifiuti radioattivi. Una volta esaurito il fissile presente nel combustibile, infatti, restano i sottoprodotti della reazione a catena: una gamma di isotopi con tempi di decadimento molto variabili, anche di centinaia di migliaia di anni. Nell’Unione europea a 25, dove il nucleare contribuisce per circa il 33% del fabbisogno complessivo di energia elettrica, ogni anno vengono prodotti circa 40.000 metri cubi di rifiuti radioattivi, dei quali 4.000 sono quelli ad alta attività e a lunga vita, categoria 3. Per il loro stoccaggio è necessario ricorrere a barriere naturali, come le formazioni geologiche in profondità. Li quantità totale di scorie potrebbe però ridursi notevolmente. sia tramite ritrattamento nucleare sia con i reattori autofertilizzanti veloci di IV generazione. Processi che richiederanno ingenti investimenti e che lanciano pesanti incognite sui futuri costi dell’elettricità "pulita" da nucleare.



RIPROCESSAMENTO

Per motivi di carattere tecnologico, il combustibile non può essere lasciato indefinitamente all’interno del reattore: a un certo punto bisogna scaricarlo sebbene lo sfruttamento sia incompleto. Nei cicli one through si prende il combustibile irraggiato sfruttato, contenente prodotti radioattivi, e lo si mette in un deposito geologico.



Nei cicli che prevedono il riprocessamento viene invece spedito in un impianto ad hoc: qui si separano chimicamente i radioisotopi dal resto Ilei prodotti di fissione e si crea una nuova miscela. In particolare, si utilizza il plutonio generato nel reattore e lo si mescola con nuovo uranio. Servirà per produrre energia: i nuovi reattori possono ospitare sia ossidi di uranio sia ossidi misti uranio-plutonio (A10x) che arrivano dall’impianto di riprocessamento. La Francia ha adottato questo schema da anni. Gli americani, dai tempi di Jimmy Carter, hanno preferito lo schema one through per evitare il rischio di proliferazione nucleare e di "bombe sporche". «Oggi si stanno però rendendo conto che i loro 104 reattori, nel lungo periodo, potrebbero intasare il deposito di Yucca Mountain, in Nevada (peraltro non attivo prima del 2017 e oggetto di forti contestazioni, ndr) e stanno riconsiderando l’ipotesi "riciclo"», spiegano all’Enea. Il fisico Frank von Hippel della Princeton University non concorda: il MOx, una volta irradiato, contiene ancora circa il 70% del plutonio di partenza e il problema dello stoccaggio, quindi, sarebbe solo rinviato.



QUARTA GENERAZIONE

Il vero salto tecnologico è verso i reattori di IV generazione, ancor più sicuri e capaci di produrre meno rifiuti, o addirittura di bruciare quelli prodotti dalle generazioni precedenti. «Allo studio ci sono reattori raffreddati a gas ad alta temperatura che potrebbero produrre idrogeno, facendo quindi entrare il nucleare anche nel settore dei trasporti», spiega Ricotti del Politecnico «ma la parte dei leone spetta ai reattori veloci. Essi prevedono l’utilizzo di neutroni veloci, molto più energetici rispetto a quelli termici dei reattori attuali e per questo in grado di mantenere più a lungo la reazione a catena, ossia la fissione dell’uranio o del plutonio che crea energia. Risultato: il combustibile è sfruttato meglio. Inoltre, questi reattori generano neutroni in eccesso permettendo di produrre più combustibile fissile (Pu239) di quello originariamente introdotto». La tecnologia dei reattori veloci non è nuova: è già stata sperimentata nel reattore francese Superphenix, frutto di una joint venture franco-tedesco-italiana e chiuso nel 1998. Insomma, non si parte dal nulla. Con qualche controindicazione. Il processo di separazione e riconfezionamento del nuovo combustibile prodotto è un costo aggiuntivo notevole e poi c’è la questione dei tempi. Ci vorranno anche più di 20-30 anni e il fatto che una tecnologia sia disponibile non vuol dire che il mercato sia pronto ad accettarla: l’industria ha fatto investimenti notevoli per sviluppare la III generazione, che avrà una durata prevista di 60 anni. Anche se la IV generazione fosse pronta alla vendita nel 2030 chi la comprerebbe? Prima bisogna ammortizzare i costi della III. All’Italia non conviene allora aspettare, come propone il Nobel Carlo Rubbia (vedi intervista a pag. 56)?

RITARDI

«I reattori di III generazione sono realtà oggi. Per il resto è necessario un salto tecnologico di molti anni. Rubbia ha riproposto il ciclo uranio-torio, bellissima cosa ma sia chiaro che oggi nessuno al mondo lo fa. Dopo magari aspettiamo la fusione, ben che vada se ne parla fra 50-60 anni... Se la nazione ha un problema di mix energetico nel medio termine, la decisione deve essere presa con le tecnologie mature e disponibili sul mercato», avverte Monti dell’Enea. «Deve essere però una scelta Paese, il nucleare ha una complessità tale che può essere riaperto solo se c’è una decisione bipartisan alla base». Nel caso, l’Italia dovrà ricostruire un intero sistema: «Abbiamo distrutto le competenze: paradossalmente la nostra maggiore preoccupazione non è comprare il reattore e metterlo sul sito ma avere un’organizzazione tecnico-scientifica che gli stia intorno, che sappia farlo funzionare. Non è come fare scarpe. E poi serve la certezza della programmazione, degli investimenti, del personale», denuncia Graziano Fortuna, dell’Istituto di fisica nucleare (Infn), che si occupa di ricerca di base: «Non si farà mai la IV generazione se non ci si allena con la III».



OPZIONE ITALIANA Il ministro Scajola ha citato il modello Epr... La scelta migliore? «Oggi il mercato dell’energia è libero e i conti vanno fatti secondo le leggi di quel mercato. Si dovrà fare una gara e vincerà l’azienda che offrirà le condizioni migliori», sostiene Monti dell’Enea: «L’obiettivo a medio termine è di coprire almeno il 15-20% del fabbisogno. Adesso la potenza impegnata in Italia è di 50-57 gigawatt, tra 10-20 anni potrebbero diventare 65. Una centrale Epr è di 1,6 gigawatt, quindi stiamo parlando di almeno 6 centrali ». I tempi? L’impianto finlandese richiederà 13-14 anni per entrare in funzione. Il governo della Gran Bretagna, Paese con lunga e ininterrotta tradizione nucleare, ha da parte sua annunciato la costruzione di 8 centrali nucleari di III generazione per il 2020. Può forse l’Italia fare meglio? «Mi attirerò le ire di Scajola, ma non avremo centrali entro 5 o 10 anni. Auspico, semmai, che fra trent’anni il mixing energetico in Italia sia 30% nucleare, 30 rinnovabile, 30 fossile, 10 altro», conclude Monti.



COSTI E BENEFICI

Per far ripartire il settore in Usa (ben 29 reattori potrebbero aggiungersi ai 104 esistenti) l’Amministrazione Bush ha offerto cospicui sussidi ai gestori privati, Costi e tempi di costruzione sono infatti molto maggiori di una centrale tradizionale, anche se il costo dell’energia prodotta sarebbe poi competitivo: obiettivo dell’Erp, per esempio, è portare 1 MWh di energia a 30 curo. Eppure un dossier di Wwf, Greenpeace e Legambiente contesta l’economicità della scelta nucleare: tra costi industriali e sussidi un MWh, oggi, raggiungerebbe 80 dollari. Quanto costa un reattore? Dipende dall’accordo fra le parti. Alla Finlandia l’Epr è stato venduto chiavi in mano per 3,2 miliardi di euro (i ritardi sono a carico di Areva). Ben più dura, sussurrano gli esperti, sarebbe stata la trattativa con i cinesi, che oltre all’impianto vogliono il know how: prendono i primi reattori, imparano tutto quello che c’è da imparare e quelli successivi se li costruiscono da soli... Hanno preteso il technology transfer sennò non compravano. Westinghouse ha accettato, Areva si era rifiutata ma poi ha ceduto: pare abbia venduto l’Epr a un prezzo inferiore di quello fatto ai finlandesi.



DEPOSITI DI SCORIE

«Invece di decadere in 1.000-3.000 anni, la radioattività sparirà in 200-300 anni ma il problema delle scorie non sparirà», avverte il professor Marco Ricotti. «D’altra parte, non esiste l’energia "pulita", che sia nucleare o no. L’energia di per sé ha un impatto sull’ambiente, anche quella rinnovabile utilizza materiali tossico-nocivi nei pannelli fotovoltaici». Se non riusciamo a gestire i rifiuti di Napoli, come possiamo affrontare le scorie radioattive? «Esistono soluzioni tecniche consolidate, si possono individuare anche in Italia siti sicuri dove stoccarle e in futuro si potrebbe pensare a un deposito geologico comunitario per quelli ad alta attività». La Russia ha già offerto la sua steppa in Siberia...



SICUREZZA

Il nucleare non emette CO2, perché non sfrutta il principio della combustione per la produzione di calore. I gruppi ambientalisti denunciano però i rischi di contaminazione in tutto il ciclo del nucleare, dall’estrazione dell’uranio allo smaltimento delle scorie, e lo spettro di un incidente aleggia sempre nell’aria come ha dimostrato quello più recente di Krsko in Slovenia, subito rientrato. Se sommiamo gli anni di vita di tutti i reattori costruiti arriviamo a 24.000 anni di esperienza, rispondono gli ingegneri nucleari. E la generazione III +, che sarà disponibile nel 20122015, avrà un rischio teorico assolutamente irrisorio. Comunque mai pari a zero, come spiega Fortuna dell’Infn: «Da un punto di vista scientifico si può minimizzare il rischio, non eliminarlo. Questo vale per tutte le attività umane, compreso il solare. Il processo nucleare è tra i più studiati in assoluto, usiamo modelli di calcolo con margini di incertezza inferiori al 3%. Analisi dei rischi così rigorose gli impianti civili di tipo chimico e molte attività industriali se le sognano...».



SCORTE DI URANIO

La stima dell’Aiea è che la durata dei depositi attuali sia di circa 85 anni ma sicuramente ci sono giacimenti ancora da scoprire. Il problema non è la disponibilità ma i costi di ricerca e d’estrazione che saranno sempre maggiori. «Se però si arriverà veramente ai reattori di IV generazione autofertilizzanti, che producono più combustibile di quello che bruciano, la disponibilità di uranio con gli stock attuali passerà a 2.500 anni», sostengono i fautori del ritorno al nucleare. Se...

Scorie nucleari, quel «lavoro sporco» ancora da fare

Scorie nucleari, quel «lavoro sporco» ancora da fare

Corriere della Sera del 18 giugno 2008, pag. 9

di Stefano Agnoli, Giancarlo Pireddu

Pubblichiamo uno stralcio del libro « Il prezzo da pagare»

Come tutti gli impianti produttivi anche le centrali nucleari hanno un ciclo di vita, all’incirca sui quarant’anni, un periodo dopo il quale è necessario pensare alla loro sostituzione, e ai delicati problemi che presenta. A fine 2007 sul pianeta risultavano in esercizio 439 reattori, e di questi 167 si trovavano in Europa. Circa 119 impianti hanno invece già terminato la loro attività, e 78 sono localizzati nel Vecchio continente. Ecco perché il decommissioning e un’attività in piena crescita: secondo la World Nuclear Association, nei prossimi dodici anni si prevede che nel mondo si dovrà gestire lo smantellamento di circa 300 vecchi reattori, più o meno un centinaio ogni quattro anni, e una settantina di essi saranno europei.



In Italia, a fine 2006, cioè diciannove anni dopo lo stop referendario, l’attività di effettivo smantellamento aveva interessato solo il 6% delle strutture, mentre la maggior parte delle spese era stata dedicata a mantenere in sicurezza l’esistente (...). L’opinione pubblica, insomma, non ha la percezione che buona parte del «lavoro sporco» rimanga ancora da fare (...). Nel caso italiano, inoltre, l’operazione diventa un costo secco per il consumatore, perché dovrà essere finanziata ad hoc. La stima più recente per il decommissioning nazionale è di circa 4,3 miliardi di euro, una cifra contenuta nell’ultimo piano industriale della Sogin, quello 2007-11. La data di conclusione delle bonifiche sarebbe il 2024, se fosse operativo il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi.



Ma di qui ad allora andranno sciolti parecchi nodi. Primo fra tutti proprio quello delle scorie, visto che attualmente i rifiuti di seconda e terza categoria ammontano a circa go mila metri cubi. Così distribuiti: 25 mila provengono dalle «vecchie» quattro centrali e dagli impianti di ricerca dove sono stati stoccati. Gli altri 65 mila arriveranno direttamente dall’attività di smantellamento. Tra tutte le scorie, quelle di terza categoria rappresentano il 5% del totale. Ma sono proprio loro a costituire il «nocciolo» del problema. «Terza categoria» significa infatti materiali ad alta attività, che non esistono in natura, come il plutonio, molto tossici e con un periodo di dimezzamento di diverse migliaia di anni (ventiquattromila nel caso specifico). Pur variando dal 3 al 5% del totale, sono tuttavia responsabili del 95% della radioattività che viene emessa (...).



Nell’aprile del 2007 la Sogin e la francese Areva hanno sottoscritto un contratto per il «riprocessamento» di 235 tonnellate del combustibile nucleare irraggiato ancora presente in Italia e in una domenica d’inverno, il 16 dicembre 2007, i primi vagoni ferroviari con le barre fino a quel momento depositate nell’impianto piacentino di Caorso si sono messi in viaggio per attraversare le Alpi. Per essere completate, le operazioni di trasferimento richiederanno complessivamente circa cinque anni, e dopo il trattamento a Le Hague i residui vetrificati dovranno prendere la direzione opposta per rientrare in Italia entro il 31 dicembre 2025. Il tutto secondo i termini di un’intesa che comporta per la Sogin e il contribuente italiano un esborso superiore a 25o milioni di euro, che comprende il trasporto, il trattamento e il condizionamento dei combustibile delle ex centrali di Caorso (190 tonnellate), Trino Vercellese (32 tonnellate) e del Garigliano (13 tonnellate). Qualche anno prima era stato invece già inviato in Galles il combustibile della centrale di Latina, che funzionava con tecnologia britannica, e di parte di quello del Garigliano. Alla richiesta di maggiori dettagli relativi alla presenza a Sellafield di combustibile nucleare italiano - si dovrebbe trattare di 1.452 tonnellate di combustibile Magnox - la risposta ufficiale inglese è che molto di quel materiale è già stato «riprocessato», mentre una sua parte è ancora in attesa di trattamento. Le scorie, si aggiunge, torneranno in Italia in seguito agli accordi contrattuali, ma i particolari sul materiale radioattivo custodito a Sellafield sono considerati confidenziali e non possono essere rivelati.



Seguendo il programma in corso d’opera, dal trattamento delle scorie «francesi» e «inglesi» si ricaveranno invece dei rifiuti vetrificati che dovranno essere collocati nel futuro, incognito, deposito nazionale. A individuarne la localizzazione sarà il ministero dello Sviluppo, che dovrà pur sempre tenere conto della posizione delle Regioni. Un gruppo di lavoro misto si è messo al lavoro a marzo 2008, e si è dato sei mesi per individuare il modo di realizzare lo stoccaggio. Il deposito dovrà ospitare non solo i materiali radioattivi di uso medico e industriale, ma anche i rifiuti di seconda categoria, e «temporaneamente» anche quelli di terza categoria. Un eufemismo per dire «a tempo indeterminato», in attesa cioè che gli sviluppi scientifici mondiali consentano di individuare soluzioni adatte.



Malgrado i propositi di accelerazione rispetto al più recente passato, secondo le stime della Sogin le attività di decontaminazione e smantellamento delle centrali, e di bonifica finale dei siti che ospitano gli impianti, a Trino Vercellese finirebbero completamente entro il 2013. Bosco Marengo (produzione delle barre di combustibili) dovrebbe chiudere entro il 2oog. Mentre al 2011 Caorso sarà smantellata al 40%, Saluggia (impianto Eurex di riprocessamento) al 35%, Trisaia (Itrec, riprocessamento) al 30%, Casaccia (laboratorio Opec, impianto plutonio) al 25%, Garigliano al 20% e Latina al 10% (...).


(recensione)

martedì 17 giugno 2008

Siti e scorie Scajola per tempi rapidi

Siti e scorie Scajola per tempi rapidi

Il Sole 24 Ore del 17 giugno 2008, pag. 13

di Federico Rendina

Una prima mappa, magari provvisoria e "mediabile", dei posti dove piazzare le nuove centrali nucleari italiani da elaborare entro fine anno. E intanto, per fine mese, i criteri per individuare il sito unico di superficie per lo stoccaggio delle nostre scorie radioattive vecchie e nuove. Ma subito, già domani, arriveranno le norme "facilitatrici" per l’atomo elettrico, ma anche per le altre infrastrutture energetiche ritenute critiche per il destino del nostro Paese, a partire dai rigassificatori che dovrebbero differenziare l’import di metano. Per dissodare ostacoli e rifiuti, perplessità e timori, ecco dunque uno sconto «significativo» sulle bollette di chi s i ritroverà nelle vicinanze delle nuove strutture energetiche. Che verranno comunque piazzate solo dopo un confronto per far «condividere e capire» alla popolazione la loro utilità.

Prende forma la ricetta energetica del ministro dello Sviluppo Claudio Scajola, che conferma così l’intenzione di avviare subito la pianificazione delle nuove centrali nucleari ricorrendo alla tecnologia più avanzata disponibile. Bando alle chimere della quarta generazione, che promette grandi vantaggi (riciclo delle scorie come nuovo carburante, sicurezza intrinseca e efficienza-economicità moltiplicata per dieci) ma non prima di 15-20 anni.

La strategia governativa punta quindi sulla "terza generazione evoluta", ovvero quella che deriva dalle esperienze già in atto in Francia con la costruzione della centrale Epr di Flamanville, e in Finlandia con i lavori per la centrale di Olkiluoto che il nostro Governo intende prendere ad esempio anche sul versante delle alchimie finanziarie: per superare il problema degli altissimi investimenti iniziali í finlandesi hanno messo a punto un modello di cooperazione con impegni pluriennali tra produttori, finanziatori e consorzi di consumatori attraverso contratti take or pay a prezzo prefissato.

Il giorno della verità scatterà già domani, nel Consiglio dei ministri che dovrebbe esaminare la prima bozza del provvedimento di facilitazione del nucleare e dei rigassificatori. Con grande attenzione alle promesse più volte formulate ma anche qualche strizzata d’occhio all’opposizione, visto che il percorso delineato per le scorie radioattive conferma il decreto varato dall’ex titolare dello Sviluppo, Pier Luigi Bersani: entro giugno, appunto, i criteri per un sito unico di superficie inserito in un centro di ricerca sulle tecnologie nucleari. Anche questo - anticipano gli uomini di Scajola - da oliare con le facilitazioni territoriali previste per centrali atomiche e rigassificatori, sulla base di un percorso che sarà discusso venerdì dal gruppo di lavoro Stato-Regioni istituito con il decreto di Bersani.

Per l’Italia strangolata dai costi e dalla dipendenza del "tutto gas" qualcosa si muove davvero? Scettico il leader del Pd, Walter Veltroni. La campagna nuclearista del Governo è «uno spot, una cosa improvvisata, in un Paese che fa fatica a trovare una discarica». Perplessità arrivano anche dagli scienziati: in 1.200 hanno firmato un appello contro il ritorno del nucleare.

Incitano invece i massimi rappresentanti delle nostre imprese, ieri faccia a faccia con Scajola nell’assemblea della Federchimica. Nucleare «irrinunciabile», così come i rigassificatori, nel quadro di una politica energetica - incalza il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia - che sappia calibrare il necessario sviluppo delle rinnovabili «senza però rincorrere obiettivi irrealistici», che rischiano di drenare energie e risorse necessarie alle altre fonti. Perché «il risparmio energetico può essere un driver per l’innovazione», ma per fronteggiare in tempi compatibili le necessità di tutela dell’ambiente garantendo energia a costi meno punitivi «non c’è altra strada che il ritorno al nucleare».

Di più. Mentre il nuovo nucleare italiano tenterà il decollo, «ci vogliono interventi d’impatto immediato» per attutire gli extracosti imposti alle nostre imprese energivore, afferma Giorgio Squinzi, presidente di Federchimica. Che in assonanza con Emma Marcegaglia chiede tra l’altro una decisa revisione dei meccanismi della Borsa elettrica, rimuovendone «le limitazioni, come l’assenza di un mercato a termine, rendendo possibili i contratti di lungo periodo».

1.200 scienziati contro l’atomo

1.200 scienziati contro l’atomo

LiberoMercato del 17 giugno 2008, pag. 3

«No al rilancio del nucleare». A chiederlo sono oltre 1.200 docenti universitari e ricercatori che hanno sottoscritto un appello sulle scelte energetiche per il futuro dell’Italia. Appello contenuto in una lettera aperta al premier, Silvio Berlusconi, alla vigilia della discussione del governo sulle centrali nucleari. A guidare il gruppo di scienziati è il chimico Vincenzo Balzani, uno dei ricercatori italiani più accreditati presso la comunità scientifica internazionale. «Il sole è la più grande risorsa energetica del pianeta - scrivono - e il nucleare è un pericoloso fardello sulle spalle delle prossime generazioni». Secondo gli scienziati per prendere decisioni «è necessaria una forte collaborazione fra scienza e politica. Saremo lieti di mettere a disposizione le nostre competenze». L’iniziativa è partita dal sito Internet www:energiaperilfuturo.it, dove chiunque può esprimere il proprio sostegno. Finora, l’appello a Berlusconi ha raccolto 4.095 firme di cittadini di ogni parte d’Italia e 1.288 firme di docenti e ricercatori di Università, enti ed istituii di ricerca del Paese. «Uno dei problemi più delicati e difficili che l’Italia ha oggi di fronte - scrivono gli scienziati - è quello dell’energia. Le decisioni che verranno prese a questo riguardo condizioneranno non solo la nostra vita, ma ancor più quella dei nostri figli e dei nostri nipoti». Siamo un gruppo di docenti e ricercatori di Università e Centri di ricerca e - proseguono i ricercatori nella lettera aperta a Berlusconi - in virtù della conoscenza acquisita con i nostri studi e la quotidiana consultazione della letteratura scientifica internazionale, abbiamo sentito il dovere di esprimere la nostra opinione sul problema energetico». Nell’appello si sottolinea l’urgenza che nel Paese aumenti la consapevolezza riguardo la gravità della crisi energetica e climatica, si insiste sulla necessità del risparmio e di un uso più efficiente dell’energia e si esorta il governo a sviluppare l’uso delle energie rinnovabili e in particolare dell’energia solare.

«A nostro parere - precisano ancora i ricercatori - l’opzione nucleare non può essere consideratala soluzione del problema energetico per molti motivi: la necessità di enormi finanziamenti pubblici, l’insicurezza intrinseca della filiera, la difficoltà a reperire depositi sicuri per le scorie radioattive, la stretta connessione tra nucleare civile e militare, il possibile bersaglio per attacchi terroristici, l’aumento delle disuguaglianze tra paesi tecnologicamente avanzati e paesi poveri, la scarsità di combustibili nucleari».

Gli scienziati ribadiscono che la più grande risorsa energetica del pianeta è il Sole, una fonte che durerà per 4 miliardi di anni, una stazione di servizio sempre aperta che invia su tutti i luoghi della Terra un’immensa quantità di energia, 10mila volte quella che l’umanità intera consuma. «Sviluppare l’uso dell’energia solare e delle altre energie rinnovabili significa guardare lontano - concludono - che è la qualità distintiva dei veri statisti. E’ un guardare lontano nel tempo, perché getta le basi per un positivo sviluppo tecnologico, industriale e occupazionale del nostro Paese, senza porre pericolosi fardelli sulle spalle delle prossime generazioni».

Cini:«Il nucleare è costoso, irrazionale e anti-economico»

Cini:«Il nucleare è costoso, irrazionale e anti-economico»

Liberazione del 17 giugno 2008, pag. 1

di Rina Gagliardi

Il "ritorno del nucleare", con tanto di ambientalisti pentiti (pardon, con tanto di ambientalisti che hanno cambiato idea), è una sciagura quasi unicamente italiana - le maggiori potenze dell'occidente sviluppato, e non solo, hanno smesso da un pezzo di progettare e costruire nuove centrali ad uranio, e investono in altre risorse energetiche. Ecco un dato quasi del tutto trascurato dalla discussione, chiamiamola così, di queste settimane. Che anche per questo ha un taglio e un valore fortemente simbolico - culturale, nel senso lato del termine. Di questo, e delle ragioni di merito per le quali, a più di vent'anni di distanza da Chernobyl, non c'è nessuna ragione valida (scusate il voluto bisticcio linguistico), per rilanciare l'uso del nucleare, abbiamo parlato con Marcello Cini. Un intellettuale che sa di scienza, di non neutralità della scienza e di politica. Un antinuclearista non pentito, oltre che un difensore attivo della laicità.


Il No al nucleare, per quasi vent'anni, è stato largamente egemone nel Paese e nella cultura di sinistra - quantomeno nella sua componente meno "sviluppista" e meno scientista. Oggi non è più così. Come mai, secondo te, la proposta del nuovo governo di centrodestra, ottiene in fondo un consenso così largo, e molto "trasversale"?
Perché questa proposta è parte integrante dell'egemonia attuale, profonda, della destra. E' frutto del clima politico e culturale che stiamo vivendo - che stiamo cioè subendo, come ha ampiamente analizzato Bertinotti nella "giornata di studio" che la rivista "Alternative per il socialismo" ha dedicato, venerdì scorso, alle ragioni della sconfitta. La destra, questa volta,ha vinto anche perché ha "convinto": i suoi valori, i suoi paradigmi, il suo linguaggio, la sua idea di società non hanno trovato - specificamente nell'ultima campagna elettorale - una opposizione (o un'alternativa) davvero reali e convincenti. Così, il nucleare ritorna in campo, insieme al Ponte di Messina, alle Grandi Opere, a tutto ciò che allude ad un modello di sviluppo falsamente "moderno" ed efficiente, per ragioni altamente simboliche.

Più simboliche che economiche? Non c'è dunque, dietro il piano Scajola, un interesse diretto dei "poteri forti"a investire nell'energia nucleare?
Mah, a parte il fatto che il piano Scajola ancora non è davvero noto, il nucleare non è certo un settore che garantisce alti livelli di redditività o di profitto: ha costi enormi, sia di progettazione che di costruzione, oltre che di mantenimento (e di smantellamento), ha bisogno di misure di sicurezza straordinarie, ha una fonte di approvigiomento, l'uranio, che è "finita" quasi quanto il petrolio. Voglio dire che questa scelta del governo (e di parte dell'opposizione) non si spiega attraverso un "classico" paradigma di tipo economicistico (anche se poi, naturalmente, se si procederà alla costruzione di nuove centrali, i soldi, tanti soldi, circoleranno). Il fatto è che questa destra non è riducibile ad un'opzione puramente neo-liberista, "capitalistica", all'equazione libero mercatointeressi diretti di classe della borghesia: essa, quasi al contrario, tende ad attingere a piene mani nelle casse dello Stato, ovvero nelle tasche dei cittadini, inseguendo mega-progetti sostanzialmente irrazionali e improduttivi, colludendo con la componente più speculativa - mafiosa - della borghesia italiana. Da questo punto di vista, il caso del nucleare è esemplare. Ancora non è detto che esso si farà davvero - le centrali così dette di "quarta generazione", quelle che dovrebbero aver risolto tutti i problemi della sicurezza, ci saranno, se ci saranno, tra venti, venticinque anni, non prima. Ma sicuramente nel frattempo l'Enel metterà le mani sulle centrali dell'Est (a proposito, le più vecchie, le meno sicure…). Nel frattempo, verranno investite risorse pubbliche molto ingenti nella "preparazione" e negli studi, a favore di comitati, corti di tecnici, consulenti, e via dicendo. Una pioggia di laute prebende a gruppi ben determinati, che non farà fare a questo Paese alcun vero passo in avanti. Ma anche il simbolo di una scienza e di una tecnologia elitarie: nelle mani dei "pochi che sanno", contro la moltitudine che è tagliata fuori, non sa, non può controllare nulla.

Si dice che le energie alternative, le fonti rinnovabili, non sarebbero comunque in grado di risolvere il problema del fabbisogno energetico. E che dunque serve, come minimo, un mix - nucleare e solare, nucleare ed eolico. E' vero?
No che non è vero. Implicitamente o esplicitamente, il riferimento è sempre quello del modello di sviluppo che si vuole perseguire - che cosa produrre, quanto e come produrlo, quanto e come consumare. L'argomento che citavi, e che viene citato molto spesso, non è solo di tipo "contabile": in realtà, è l'indizio più chiaro della pigrizia della borghesia italiana, della sua inesistenza imprenditoriale. Non c'è oggi, in questo paese, nessun imprenditore che abbia il coraggio di investire sul serio nel campo delle energie alternative, cioè rinnovabili. Così come non c'è un politico che abbia capito la portata del problema - a differenza di quello che accade nei principali paesi d'Europa, come la Germania. E' chiaro come il sole che il solare, l'eolico e il fotovoltaico costituiscono una soluzione di valore crescente man mano che diventano l'investimento privilegiato, man mano che che nella società si afferma la centralità economico-politica e culturale delle energie rinnovabili. E che, viceversa, se si opta per una tecnologia costosissima, e di retroguardia, come il nucleare, il gatto non fa che mordersi la coda.

Riassumendo: il nucleare è, prima di tutto, una scelta miope. Succhia risorse colossali, blocca l'obiettivo vero, le energie rinnovabili, non risolve i problemi, né a lungo né a medio termine. E la sicurezza? La ragione per la quale forse ancora molte persone non si fidano di una centrale atomica?
Guarda che, secondo me, quello della "non sicurezza" è un argomento relativo (a parte il fatto che, siccome viviamo in Italia, mi sembra lecito mettere nel conto non l'"insicurezza" in sé e per sé delle centrali di Scajola, ma l'inaffidabilità dei nostri sistemi di controllo, a differenza di quelli tedeschi o francesi). E' dimostrato, cioè che le centrali nucleari possono essere ben protette e relativamente "sicure", ancorché non sia stato risolta, a tutt'oggi, la questione dello smaltimento delle scorie. La domanda è: a quale prezzo? Con quali costi? E parlo sia dal punto di vista economico che da quello della democrazia. Se una delle ragioni più frequentemente addotte a favore del nucleare, almeno qui da noi, è la necessità di risparmiare sui costi attuali, non è difficile capire che, fatti tutti i conti, sono proprio i conti a non tornare. Insomma, l'energia nucleare "sicura" è costosissima - basti vedere quanto costa chiudere una centrale, quando ha finito il suo percorso di vita. Ma la sicurezza richiesta ha anche un costo politico: militarizzata o no che sia, una centrale nucleare configura una struttura autoritaria. Diventa il simbolo di una società in cui, come già dicevo, nessuno può mettere bocca sulle grandi scelte - nessuno può prender parola, discutere, partecipare, a parte l'oligarchia di coloro che conoscono e gestiscono. In questo senso, il modello di sviluppo fondato sull'energia nucleare è davvero una revanche sul Sessantotto. La restaurazione dell'ordine che quel movimento ha combattuto, con qualche successo anche duraturo. L'idea che la società è rigidamente divisa in classi, quelle dominanti e quelle subalterne - e i diritti, quando e se ci sono, sono mere elargizioni, e il controllo sociale e di massa è obliterato. Foucault, in fondo, aveva già detto tutto. Sì, stiamo davvero andando verso un regime - per quanto "leggero" esso sia…

lunedì 16 giugno 2008

Il vecchio problema del nucleare è sempre lì: le scorie

Il vecchio problema del nucleare è sempre lì: le scorie

L'Unità del 16 giugno 2008, pag. 23

di Pietro Greco

I rifiuti sono il grande problema del nucleare. E per la sua immagine.

Il mondo è pieno di scorie radioattive accumulate in oltre 60 anni di utilizzo dell’energia contenuta nel nucleo degli atomi a fini civili e, soprattutto, militari. E nessuno ha ancora in mano una ricetta per smaltirle una volta e per sempre. Gli Stati Uniti, per esempio, devono gestire circa 37 milioni di metri cubi di rifiuti nucleari e contano di risolvere il problema dello stoccaggio in un sito definitivo (in diversi siti, differenziati per tipologia di rifiuti) entro i prossimi 70 anni, dopo aver investito all’incirca 1.000 miliardi di dollari. In Russia il rovello ha dimensioni ancora più grandi. Perché, si calcola, i rifiuti da gestire sono molti di più (in un solo sito presso la cittadina di Seversk, Siberia, ve ne sono stoccati circa 40 milioni di metri cubi); perché di molti di questi rifiuti si sono perse le tracce e perché nessuno ha né i soldi né l’intenzione di spenderli per affrontare il problema. Certo, quelle di Stati Uniti e Russia sono tantissime perché sono «scorie di guerra fredda», come recita il titolo di un documentato libro uscito anni fa per la Ediesse con la firma di Ugo Farinelli. Frutto soprattutto di un incontrollato sfruttamento militare dell’energia nucleare.



Al contrario, in Italia il problema della gestione dei rifiuti radioattivi è piccola cosa. In totale le nostre scorie, tutte da usi civili, ammontano a 23.500 metri cubi: millecinquecento volte meno che negli Usa, tremila volte meno che in Russia. E anche se a questi sommiamo i circa 30.000 metri cubi che rientreranno dall’estero dopo un opportuno trattamento, nel loro insieme ammontano a quanto la Francia ne produce di nuove in un solo anno.



Ma nel nostro paese non ci sono fonti di produzione militari, esistono solo quattro centrali con attività sospesa da anni (in Francia ce ne sono oltre 50 attive) e le scorie ancora prodotte ogni anno sono quelle provenienti dagli ospedali e da altre fonti minori.



E tuttavia, pur essendo ben più piccolo che in altri paesi, il problema dei rifiuti nucleari in Italia (soprattutto in Italia) è un problema tuttora aperto. E non solo perché, da noi come altrove, i rifiuti nucleari non possono essere smaltiti: non esiste un modo economico e affidabile per azzerarne la radioattività. Occorre attendere che lo facciano in maniera naturale. Il che significa attendere alcune centinaia di anni per i rifiuti di cosiddetta II categoria, i maggiori in volume, e alcune migliaia o persino alcuni milioni di anni per rifiuti di III categoria, i maggiori per intensità radioattiva.



In altri termini, allo stato il problema dei rifiuti radioattivi non può essere risolto, può essere solo gestito in modo sicuro. Come? L’idea di molti è confezionare per bene i rifiuti, in modo da garantire l’assenza di ogni rilascio per centinaia e migliaia di anni, e poi collocarli in un «deposito unico nazionale», un «sito geologico» che qualcuno chiama persino «deposito definitivo», lì nel sottosuolo, in una cavità naturale secca e a basso rischio sismico. Facile a dirsi e difficile a farsi. Finora nessuno al mondo c’è riuscito.



In Italia ci avevamo pensato. Dopo che un’apposita commissione parlamentare - che prende il nome dal suo presidente, Massimo Scalia - aveva definito per bene il problema, è intervenuto, all’inizio del suo mandato, il secondo governo Berlusconi con un modello operativo che potremmo definire d’imperio: creare una società (la Sogin), affidarla a un generale, scegliere le migliori soluzioni tecniche e realizzarle.



In pochi mesi la Sogin ha assolto alla prima parte del compito. Con procedure che non hanno retto alla prova, ha indicato al governo il sito: il sottosuolo di Scanzano, in Basilicata. Ed era già pronta a mettere mano all’opera. Come sia andata a finire, tutti lo sanno. E non solo in Italia. A partire dal 2003 Scanzano è diventato in tutto il mondo il sinonimo di cosa non si deve fare - in un paese democratico, almeno - per gestire il problema dei rifiuti radioattivi e, più in generale, i problemi connessi al rischio ambientale.



Dopo Scanzano si è ricominciato, tenendo nel debito conto i vincoli e le indicazioni dell’Unione Europea. L’idea di Pier Luigi Bersani, il ministro che nel passato governo Prodi ha seguito il problema, è stata quella di sospendere la ricerca del definitivo «sito geologico» e di trovare una soluzione provvisoria, aggredendo il problema con l’approccio dell’«anche nel mio giardino»: ovvero, fatte salve le garanzie per tutti, concertare con le regioni l’individuazione di un sito. Un sito che si prospetta grande per ora quanto quattro campi di calcio, in grado di accogliere in sicurezza (al meglio delle tecnologie disponibili) circa 13.000 contenitori modulari, che non sia nel sottosuolo e non abbia le pretese dell’eternità, ma che sia superficiale e appunto provvisorio (anche se per provvisorio in questo caso si intende un tempo dell’ordine delle decine di anni).



Alcuni sostengono che sarebbe meglio pensare non a un deposito unico, ma a diversi depositi più piccoli. Sarebbe bene tenere in conto, tuttavia, la normativa europea e non dividersi su una questione (un sito unico, più siti) che va risolta in sede tecnica. Solo dopo che l’Italia avrà dimostrato di saper gestire le sue poche scorie, potrà porsi credibilmente il problema di sviluppare il nucleare. Certo, si può lavorare per ridurre al minimo il tempo dello stoccaggio provvisorio. Come? Lavorando su due piani paralleli. Da un lato verificare se è possibile concordare a livello internazionale l’individuazione di un «deposito definitivo» o di lungo periodo. Dall’altro studiare possibili tecniche che, in economia e soprattutto in sicurezza, riescano a smaltire (abbattendo in qualche modo la radioattività) e non si limitino a gestire i rifiuti nucleari. Molte sono le ipotesi da verificare. Resta il fatto però che, finché queste tecnologie non saranno messe a punto, l’opzione nucleare per la produzione di energia a fini civili resterà un’anatra dannatamente zoppa.



Prima di annunciare che in cinque anni sarà messa la prima pietra del nuovo nucleare che farà ripartire la produzione di nuove scorie, sarebbe bene, dunque, che il nuovo governo Berlusconi dichiarasse di quanto tempo ha bisogno per dimostrare che l’Italia sa gestire almeno la piccola quantità delle sue antiche scorie.

Nucleare, una scelta sbagliata

Nucleare, una scelta sbagliata

L'Unità del 16 giugno 2008, pag. 25

di Sergio Gentili

L’incidente nella centrale nucleare di Krsko, in Slovenia, pur di livello minore (garantiscono), ha suscitato allarme e apprensione nelle popolazioni. Ha pesato il ricordo del tragico incidente di Cernobyl e soprattutto la consapevolezza dei rischi e dei limiti che ancora oggi impedisce alla tecnologia nucleare di avere un peso significativo nel sistema energetico mondiale. Tanto che l’International Energy Agency prevede, entro il 2030, una robusta riduzione della quota di produzione elettrica da nucleare che non supererà neppure il 10% della produzione totale.



Il centro destra, viceversa, propone il ritorno al nucleare. Dicono per soddisfare la domanda di energia e per tutelare l’ambiente. Ma queste motivazioni non stanno in piedi. Sul terreno della tecnologia il discorso è semplice. Il cosiddetto nucleare "sicuro", di quarta generazione, come ci ricorda in una recente intervista l’ad dell’Enel, Fulvio Conti, ancora non c’è. E non ci sarà per i prossimi 20/30 anni. La tecnologia che il Ministro (del G8) Scajola vuole dare al paese, quindi, è quella di prima, più sofisticata ma non è né conveniente, né strutturalmente più sicura. Il problema delle scorie radioattive non è risolto. Esse continuano ad essere fortemente inquinanti. Non si sa dove metterle. Nessuno le vuole (anzi il governo ha il dovere di risolvere il problema di quelle vecchie evitando "invenzioni" dannose come fu per Scanzano Ionico) e i costi di smaltimento sono elevatissimi, a carico degli utenti: pagare di più per meno sicurezza è proprio un buon affare! Il nucleare ha costi elevati, non è competitivo e aggraverà la stessa bolletta elettrica delle famiglie. La ricerca scientifica per un nucleare "pulito", tuttavia, è in azione. Aiutiamola, con fiducia ed ottimismo. Oggi, però, quello che si propone è un azzardo costoso e di difficile gestione sociale. Ma c’è di più. E la strategia economica che sta dietro al nucleare che è sbagliata. Essa non si confronta in modo strategico con la competizione globale e, tanto meno, dà risposte immediate alla crisi petrolifera in atto. Il costo del barile di petrolio è alle stelle e l’economia mondiale corre sul filo della recessione, settori economici sono in sofferenza e in agitazione, si è aggravata la crisi alimentare mondiale e ciò nei paesi più poveri significa disperazione e fame. Ma gli effetti negativi della crisi incideranno anche sui livelli di vita e di consumo delle famiglie italiane. La vera sfida che abbiamo di fronte è, quindi, quella di riuscire a tenere insieme politiche energetiche strategico-innovative e politiche antirecessive. Se nel ‘73, nella prima crisi petrolifera, l’alternativa al petrolio fu cercata nel nucleare, che però non portò a cambiamenti strutturali, oggi, viceversa, ci sono alternative nuove e più valide: nell’immediato il mix gas-metano con risparmio energetico, nel medio e lungo periodo, la crescita nel mix delle fonti rinnovabili (fotovoltaico, eolico geotermia) e l’idrogeno. Certamente la scelta tecnologica non è neutrale, essa implica una visione del modello energetico, degli interessi sociali e della competitività globale. E scegliere le tecnologie per un sistema energetico sostenibile significa guardare agli interessi del clima, dell’impresa, del lavoro e della ricerca scientifica. E nell’intreccio tra recessione e nuove risposte energetiche che si pone il confronto tra risparmio energetico e fonti rinnovabili da una parte, e quella del nucleare dall’altra. Il ritorno al nucleare, accompagnato da un potenziamento dell’uso del carbone, cancellerebbe le politiche per il risparmio energetico e darebbe un durissimo colpo alla nascente industria delle fonti rinnovabili. Il risultato sarebbe lo sradicamento di quella robusta politica d’incentivi per il risparmio energetico e lo sviluppo delle fonti rinnovabili messa in essere dal centro sinistra e che teneva insieme sia la costruzione di un nuovo modello energetico, sia una politica antirecessiva. Politica che camminava su due gambe: a) sostegno alla domanda, difesa dei redditi delle famiglie, delle imprese e dei bilanci degli enti locali, che con piccoli investimenti, rimborsati per il 55% e finanziati con vantaggiosi accordi bancari, potevano/possono risparmiare sulla bolletta elettrica, diventare autoproduttori e vendere alla rete le eccedenze elettriche a prezzi vantaggiosi; b) stimolo alle imprese (meccanica, elettronica, edilizia, commercio) incentivate a progettare, produrre, vendere ed installare pannelli solari e termici, ristrutturare immobili, produrre macchinari ed elettrodomestici a risparmio energetico, incentivati a far crescere la bioedilizia, l’illuminazione del risparmio, la manutenzione. Questi provvedimenti hanno avviato la costruzione di un nuovo segmento dell’economia che già oggi è strategico sia come politica antirecessiva, sia nella competitività globale. Stranamente, la Confindustria sembra non interessata allo sviluppo di queste imprese, di questo fronte strategico della competizione globale.



In Italia, il ritorno al nucleare rappresenterebbe un modello opposto: centralistico, pesante, con imprese oligopolistiche, insicuro, bollette più care, minima occupazione, fuori tempo nel contrastare la recessione e la crisi ambientale, minore ricerca, non innovazione delle imprese piccole e medie. Ciò porterebbe il nostro paese ai margini di quella competizione di qualità che è in atto tra grandi paesi e grandi aree geopolitiche. Gli obiettivi di sviluppo delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica, indicati dall’Europa (meno 20% di C02, più 2(% di energia dal rinnovabile, più 20% di risparmio entro il 2020) vanno letti nel loro duplice significato: di responsabilità verso i mutamenti climatici e di sfida competitiva nella globalizzazione. Proprio Sarkozy, ai margini del vertice della Fao di Roma, ha sostenuto che il clima, il risparmio energetico e lo sviluppo delle fonti rinnovabili sono la prima sfida dell’Europa. Già oggi, le nazioni europee più forti si stanno attrezzando. Il settore del rinnovabile ha già una sua robustezza in Spagna, Danimarca, Portogallo, Germania, sia in termini di produzione elettrica che di occupazione. Così anche negli Usa. Queste tecnologie che riducono l’uso del petrolio e non creano pericoli o rischi, avranno grandi opportunità di sviluppo in Occidente come in Cina, in India, nei paesi dell’America Latina e nella poverissima Africa. Sono una grande opportunità. E sono una necessità per bloccare il riscaldamento del pianeta che non è più un rischio, ma una realtà con cui fare i conti. Il centro destra, invece, porta l’Italia da un’altra parte. Non c’è nessuna contrarietà ideologica verso il nucleare. L’unica ideologia che si intravvede invece è quella solita e vecchia, dell’affare per l’affare.

sabato 14 giugno 2008

GIAPPONE: PERDITA ACQUA RADIOATTIVA DA IMPIANTO NUCLEARE DOPO TERREMOTO

GIAPPONE: PERDITA ACQUA RADIOATTIVA DA IMPIANTO NUCLEARE DOPO TERREMOTO
Tokio, 14 giu. - (Adnkronos/Dpa) - Una perdita di acqua radioattiva e' stata scoperta nella centrale nucleare giapponese di Fukushima in seguito alla potente scossa di terremoto che questa mattina ha colpito il nord Paese. L'acqua e' fuoriuscita da due bacini in cui viene immagazzinato il combustibile usato nel reattore gestito dalla Tokio Electric Power Co. I responsabili dell'impianto assicurano che non vi e' alcun pericolo per l'ambiente, riporta la BBC. La perdita era stata denunciata dall'Agenzia per la sicurezza degli impianti nucleari e industriali nipponica, precisando che nessun altro danno o perdita e' stato registrato negli altri quattro impianti nucleari che si trovano nella regione colpita.

(Ses/Ct/Adnkronos)

14-GIU-08 10:43

mercoledì 11 giugno 2008

Una centrale elettrica ad aquiloni l'ultima sfida all'energia nucleare

Una centrale elettrica ad aquiloni l'ultima sfida all'energia nucleare

La Repubblica del 11 giugno 2008, pag. 1

di Maurizio Ricci

Se avete mai usato un aquilone, avete sentito quanto il vento tira sulle mani. Più è grande, più tira. Come vi spiegherà qualsiasi amante di kite surfing, possono far volare anche gli uomini. "Anzi - dice Massimo Ippolito, kite surfer per hobby - li costruiscono inefficienti apposta, altrimenti ti porterebbero via". Più in alto arrivano, più forte tirano.

A questo punto non è più un gioco per bambini e neanche uno sport. E' un'occasione: le forze, in natura, non si sprecano. Soprattutto, se si possono usare per generare elettricità. Forse ci voleva l'incontro fra un kite surfer come Ippolito e un appassionato di vela, come Mario Milanese, docente al Politecnico di Torino, perché scattasse l'idea di rivoluzionare dalle fondamenta il modo di produrre energia eolica.

Il fatto che il primo abbia un'azienda di sistemi automatizzati e il secondo insegni Controlli automatici all'università ha solo fornito gli strumenti per dare la scalata ad un obiettivo, a prima vista, impossibile: produrre tanta energia elettrica quanto una centrale nucleare, solo grazie al vento. Partendo non dalle gigantesche eliche delle turbine che ormai si costruiscono un po' dappertutto, ma dagli aquiloni dei bambini.

KiteGen, come si chiama il progetto a cui lavorano Milanese ed Ippolito, non è l'unico nel mondo a puntare in questa direzione, ma è anche uno dei rarissimi casi in cui l'Italia, che le energie rinnovabili, normalmente, si limita a comprarle, è alla frontiera della ricerca. All'idea del vento dagli aquiloni lavorano anche, infatti, almeno altri due gruppi, in Olanda e in California.


E' una guerra di brevetti. Perché, se gli esperimenti confermeranno le prime verifiche e i primi risultati dei prototipi, è come mettere le mani su una sorta di pietra filosofale, capace di scavalcare le debolezze più vistose dell'energia eolica e, in generale, delle energie alternative: costose, si dice, ingombranti, incostanti, troppo poco potenti. Dalla parte degli aquilonisti, c'è, anzitutto, il vento. Quanto forte soffia, per cominciare.

A 80 metri di altitudine (l'altezza normale di una turbina) il vento spira, in media, nel mondo, a 4,6 metri al secondo, un po' più di 16 chilometri l'ora. E' un primo problema. Sotto i 4 metri al secondo, infatti, le turbine, normalmente, vengono spente, perché diventano antieconomiche. Il Texas occidentale - dove l'Enel ha appena varato una centrale eolica con 21 turbine - è un'area ricercatissima, perché il vento soffia in media a 7-8 metri al secondo (un po' meno di 30 chilometri l'ora), che viene definita una velocità ottimale. Ora, a 800 metri di altitudine, il vento soffia, in media, nel mondo, a 7,2 metri al secondo. La velocità ottimale. E un parametro cruciale, perché, spiegano i manuali di fisica, l'energia che si può ottenere dal vento aumenta in modo esponenziale con la sua velocità. "A mille metri di altezza - dice Milanese - l'energia che puoi ottenere è otto volte quella disponibile a livello del suolo".

Il secondo problema del vento è che, in molti posti, non c'è sempre o, semplicemente non ce n'è. A De Bilt, in Olanda, che è un posto ventoso, le turbine funzionano 3 mila ore l'anno, in pratica un giorno su tre. A Linate, nessuno installa turbine, perché il vento è zero. Ma chi l'ha detto che la pianura padana è senza vento? Basta andare a 800 metri d'altezza: c'è vento per 3 mila ore l'anno, quanto a De Bilt per le turbine. E, nel cielo sopra De Bilt, si arriva a 6.500 ore, più di due giorni su tre. A Cagliari, si passa da 2.800 a 5 mila ore. Di vento, insomma, ce n'è molto di più di quanto si possa pensare sulla base dell'industria eolica attuale. Ma come catturarlo? "Con lo yo-yo" rispondono Milanese e Ippolito: un aquilone che sale e scende nel cielo.

In un capannone di Chieri, alle porte di Torino, l'aquilone elettrico dispiegato non è altro che un normale kite per il surfing. Assicurato a due leggeri cavi, da 3 millimetri di diametro, lunghi 800 metri, l'aquilone si libra in volo, sostenuto dal vento. Srotolandosi, i cavi fanno girare due cilindri ed è questa movimento che genera energia, come si carica una dinamo. Ma questa è la parte più facile. Da buon velista, Milanese spiega che una barca con il vento in poppa va meno veloce di una barca che lo prenda ad angolo acuto.

In termini scientifici, la potenza generabile dall'aquilone aumenta in funzione della velocità con cui si muove rispetto al vento. La parte importante del KiteGen è, infatti, il sistema di navigazione. Dei piccoli sensori, con rilevatori Gps, sono fissati sull'aquilone e collegati con un computer a terra che gestisce la navigazione dell'aquilone: un software manovra piccole trazioni sui cavi per assicurare che il kite proceda tracciando vorticosi 8 nel cielo. Grazie a queste scivolate d'ala, l'aquilone aumenta il suo differenziale di velocità rispetto al vento e, dunque, la potenza elettrica generabile. In pratica, l'aquilone si comporta come la striscia più esterna dell'elica di una turbina, senza dover far girare complicati ingranaggi: "Di fatto - dice Milanese - prendiamo la parte migliore di una turbina a vento e la mettiamo dove il vento è più forte".

Quando il cavo è tirato al massimo, l'aquilone non genera più elettricità. Uno dei due cavi viene mollato, l'aquilone si impenna, non offre più resistenza al vento e viene riabbassato: "Per recuperarlo, consumiamo il 15% dell'energia generata in ascesa". Il passo successivo è immaginare una serie di questi yo-yo che funzionano insieme. "Basterebbe tenerli distanti 70-80 metri l'uno dall'altro - dice Milanese - mentre le turbine devono essere separate da più di 300 metri". Questo significa che, invece di avere decine e decine di torri eoliche ad ingombrare il paesaggio, per generare la stessa quantità di energia basterebbero alti e invisibili aquiloni che, a terra, non occuperebbero più spazio di una normale centrale elettrica.

Tutto questo, comunque, per ora è sulla carta. KiteGen, finora, ha solo fatto volare il prototipo, generando, in tutto 2,5 kilowatt. "Ma - assicura Milanese - il prototipo ha rispettato le simulazioni del computer e questo ci rende fiduciosi sul fatto che anche le altre simulazioni siano realistiche". E questo spinge Milanese a pensare in grande. Ad esempio, ad un altro attrezzo per bambini: una giostra. Se si montassero 200 aquiloni su un anello, che la forza del vento fa ruotare, questo movimento potrebbe generare energia con una potenza di 1.000 megawatt, quanto una media centrale nucleare. Occupando, sul terreno, non più di un cerchio del diametro di 1.500 metri. Al costo, calcola Milanese, di 5-600 milioni di euro, un sesto di quanto costi, oggi, una centrale atomica. L'energia prodotta dalla giostra KiteGen sarebbe, infatti, più intermittente di quella nucleare, ma anche assai meno cara. Se la scala fosse davvero di mille megawatt, un kilowattora, secondo i calcoli di Milanese, costerebbe solo un centesimo di euro, un terzo di quanto costa, oggi, l'energia più economica, il carbone. Tutto così semplice? Con le energie alternative, sognare sulla carta è facile. Il responso finale, poi, come direbbe il vecchio Dylan, "soffia nel vento".

martedì 10 giugno 2008

Il pericolo atomico che viene dall'est

Il pericolo atomico che viene dall'est

di Matteo Moder

Il Manifesto del 06/06/2008

Dopo l'incidente alla centrale slovacca di Krsko, si riscopre il pericolo radioattivo. Da Mochovce a Temelin, ecco gli impianti ex sovietici che fanno paura

Dissoltasi la bolla di sapone del «non incidente» nella semi obsoleta centrale nucleare di Krsko, a 130 km in linea d'aria da Trieste, troppo enfatizzato, secondo le autorità slovene e i nuclearisti nostrani, dalla stampa di mezzo mondo (ma anche a Chernobyl andò così), si va avanti col nucleare di terza, quarta, forse quinta generazione. Scajola insegna e i sostenitori dell'atomo plaudono.
«La centrale di Krsko martedì prossimo riprenderà la sua normale attività», ha detto il direttore tecnico dell'impianto nucleare sloveno, Predrag Sirola. Sul guasto avvenuto all'impianto di refrigerazione Sirola ha affermato che «non c'è nulla di particolarmente rilevante in ciò. Sono guasti - ha sostenuto - che succedono con una certa regolarità e che avvengono nelle 200 centrali sparse in Europa che funzionano con lo stesso sistema di quello di Krsko. La gente - ha spiegato - se vuole le centrali deve abituarsi a questo tipo di contrattempi e li deve anche sapere. Quanto è accaduto per me è stata una bolla di sapone che i media hanno particolarmente ampliato. Oggi qui si lavora normalmente e si lavora tutti e martedì prossimo la centrale tornerà a funzionare come prima. I pezzi di ricambio ci sono e posso aggiungere che nessun tecnico esterno è stato chiamato da noi per riparare il guasto». Chi temeva un'altra Chernobyl è servito. E così anche per il governo italiano, che parla per bocca della ministra dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo, quello della centrale slovena di Krsko è «un incidente chiuso». Anzi, secondo l'esponente governativa si è cercato di utilizzare la vicenda come pretesto per fare campagna contro i piani del governo italiano di tornare all'atomo nei prossimi anni. Che, assicura l'altro ministro Scajola, saranno rispettati.
Se, lodevolmente, il Corriere della Sera ha ieri indicato le tredici centrali nucleari che si trovano a una distanza, in linea d'aria, inferiore ai 200 chilometri dall'Italia, la cosa non deve spaventare più che tanto anche se i radionuclidi sono degli irregolari, dei clandestini senza permesso di soggiorno o d'entrata. Ma quelli indicati sono prevalentemente europei al 100% (Francia, Svizzera, Germania, la cattolicissima Slovenia) per cui valgono almeno le loro comuni radici cristiane.
Quello che può preoccupare sono le centrali dell'est «unionizzato» e che fino al 1989 operavano senza tetto né legge e soprattutto senza valutazioni di impatto ambientale, sotto la morsa sovietica. Come la centrale slovacca di Mochovce, del cui adeguamento ai parametri di sicurezza «occidentale» si occuperà l'Enel, che ha da tempo acquisito il 66% della società slovacca Slovesnke Elektrarne. L'accordo prevede - secondo Greenpeace, che ha preso a gran cuore questa e altre vicende «energetiche» - «il completamento di due vecchi reattori nucleari di progettazione sovietica». Si tratterebbe - a detta degli ambientalisti - di reattori VVER 440-213 ad acqua pressurizzata da 408 MW ciascuno la cui realizzazione, iniziata nel 1983, su progetti sovietici degli anni '70, fu fermata definitivamente nel 1993, quand'erano costruiti al 50%. Secondo l'associazione ambientalista la Slovacchia, con il trattato di adesione alla Ue, si era impegnata «a chiudere entro il 2008, per ragioni di sicurezza, due reattori della stessa potenza ma di prima generazione del tipo Vver 230, proibiti in Europa, che si trovano a nell'altra centrale nucleare slovacca di Bohunice e questi due di Mochovce dovrebbero rimpiazzarli». «I tentativi di finanziarne il completamento - ha sempre denunciato Greenpeace - furono respinti dalla Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo mentre un reattore dello stesso tipo fu chiuso dopo l'unificazione della Germania a Greisfwald (ex Ddr), appena entrato in funzione, mentre veniva bloccata la costruzione di altre tre unità di terza generazione Vver 1000 più nuove di quelle che Enel dovrà completare ora».
Per Giuseppe Onufrio, direttore delle campagne di Greenpeace, «è il modo peggiore di commemorare Chernobyl: il completamento dei due reattori verrà a costare 1,6 miliardi di euro per 816 Mw, quasi 2000 euro per Kw, cinque volte il costo di una centrale a gas di pari potenza, persino un costo maggiore di una centrale nucleare di nuovissima generazione, mentre in realtà si tratta di tecnologia sovietica di progettazione ante-Chernobyl».
Per Greenpeace la decisione di completare la costruzione dei reattori 3 e 4 di Mochovce è «illegittima», perché nessuna procedura di valutazione di impatto ambientale è stata avviata da vent'anni a questa parte dalle autorità locali per la realizzazione di tali reattori. Il progetto rappresenta inoltre un enorme pericolo. I due fatiscenti reattori slovacchi di tipo VVER-440/213 risalgono ai primi anni Settanta e, non potendo essere migliorati i livelli di sicurezza, non soddisfano i requisiti minimi di sicurezza richiesti dall'Europa. Nel 2012, una volta ultimati i lavori, i reattori saranno datati di oltre 40 anni.
Altra chicca è la centrale ceca di Temelin, stessa tecnologia sovietica anni '70, nessuna valutazione di impatto ambientale - impensabile sotto il regime - così vetusta e insicura che da anni ambientalisti austriaci e non e cittadini ne chiedono l'immediata chiusura. A tal fine hanno raccolto un milione e 200 mila firme.
Due anni fa dimostranti austriaci avevano bloccato per un'ora il posto di confine di Wullowitz-Dolni Dvoriste con una dozzina di trattori decorati da palloncini con la scritta «Stop Temelin», che si trova a soli 60 chilometri dal confine con l'Austria.
I lavori di costruzione dell'impianto iniziarono nel 1987. Il progetto iniziale prevedeva l'installazione di quattro reattori di tecnologia sovietica, ridotti poi a due dopo la caduta del regime comunista del 1989.
L'impianto è divenuto operativo nel 2000 ed è dotato di reattori Wer ad acqua pressurizzata del tipo V 320, mentre i sistemi di sicurezza sono stati forniti dalla società statunitense Westinghouse.
Già dal 1978 l'Austria ha espresso e manifestato ufficialmente la sua contrarietà all'utilizzo dell'energia nucleare.

Fuga in centrale nucleare slovena. L'Europa rivive l'incubo di Cernobyl

Fuga in centrale nucleare slovena. L'Europa rivive l'incubo di Cernobyl

la Repubblica del 05/06/2008

Il timore di un'altra Cernobyl scuote per qualche ora tutta l'Europa. Nel pomeriggio la Commissione europea lancia l'allerta in tutta il territorio dell'Unione per un incidente verificatosi in una centrale nucleare in Slovenia. Poco dopo arrivano le rassicurazioni della società che gestisce l'impianto e quelle di Bruxelles. E in tarda serata l'esecutivo comunitario conferma che "l'allarme è rientrato".

L'incidente avviene nella centrale di Krsko, a 130 chilometri in linea d'aria da Trieste: dall'impianto di raffreddamento fuoriesce del liquido. "E' stata attivata una procedura di spegnimento sicuro dell'impianto", rende noto l'Unione Europea. La situazione appare da subito sotto controllo: fonti della Nek, la società che gestisce la centrale, assicurano che non c'è stata alcuna fuga radioattiva nell'ambiente e lo stesso fa Bruxelles.

La procedura di spegnimento va avanti dalle 17.20 alle 22. A quel punto l'impianto non è più attivo ed è in condizioni "sicure". "Il reattore e il generatore non lavorano e non producono elettricità - riferisce un portavoce della Nek - Il prossimo passo sarà quello di riparare l'impianto e rimetterlo in condizioni di funzionare. Ma possiamo assicurare che l'incidente non ha avuto nessun impatto né sull'ambiente né sulla popolazione". Nei prossimi giorni, la Commissione europea potrebbe inviare dei tecnici sul posto per verificare la situazione.

Fino al momento in cui l'allarme rientra è tutto un susseguirsi di rassicurazioni. "Non c'è stata nessuna perdita nell'ambiente - dice un portavoce della Nek poco dopo la notizia dell'allerta lanciata dalla Ue - la fuoriuscita si è verificata all'interno della struttura del reattore. E' stato avviato il processo di spegnimento che avviene per fasi e sarà ultimato entro questa sera. Allora sarà possibile ispezionare il sito per verificare la situazione".

"Non c'è rischio per la popolazione e per l'ambiente", afferma Maja Kocijancic, portavoce della presidenza di turno slovena dell'Ue, sottolineando che la perdita non è stata di materiale radioattivo ma di acqua.

Alla Protezione civile del Friuli Venezia Giulia non arriva nessuna richiesta. "Non è stata allertata neppure la Protezione civile slovena - dice Guglielmo Berlasso, direttore della Protezione civile della regione - con la quale siamo in costante collegamento. A quanto ne sappiamo deve esserci stata una perdita di potenza di un reattore della centrale di Krsko. Non sappiamo nulla di più". "Quando succedono simili incidenti - aggiunge Berlasso - c'è l'obbligo di comunicarlo ai Paesi della Comunità internazionale. Penso che non si debbano creare inutili allarmismi". La sala operativa della Protezione civile resta comunque attiva 24 ore su 24.

Viene immediatamente attivata anche la sala di emergenza dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente (Apat) collegata alla rete internazionale.
"Appena abbiamo ricevuto la comunicazione, intorno alle 18 - dice all'Ansa il direttore del dipartimento nucleare dell'Apat, Roberto Mezzanotte - abbiamo subito attivato la sala di emergenza. Al momento dalle comunicazioni non risultano perdite radioattive e non è nemmeno atteso un rilascio esterno".

In serata il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, comunica che nessuna traccia di radioattività è stata riscontrata nel capoluogo giuliano e a Muggia, le località più vicine al confine con la Slovenia. E anche il ministero della Salute assicura che non c'è alcun rischio di contaminazione in Italia.

L'incidente. Il sistema d'allerta dell'Ecurie (European Community Urgent Radiological Information Exchange) riceve un'informativa dalla Slovenia alle 17.38 ora italiana e la comunicazione viene trasmessa a tutti i 27 Stati membri dell'Unione.

I responsabili della centrale, situata nella regione sud-occidentale della Slovenia a circa 120 chilometri dalla capitale Lubiana, decidono di spegnere il reattore, la cui capacità alle 19.30 ora italiana è ridotta al 22%. Successivamente si apprende che la centrale viene fermata "per qualche ora", in modo da determinare le cause della fuga.

L'Ecurie è stato creato dall'Ue nel 1987, dopo la tragedia di Cernobyl. Entra frequentemente in azione ma è piuttosto raro che Bruxelles ritenga un incidente grave al punto da renderlo di pubblico dominio.

(4 giugno 2008)

La decisione assunta dal Governo Berlusconi di procedere alla realizzazione di un programma nucleare si presenta scientificamente inconsistente e irrazionale.

Essa viene motivata per riparare il “danno” fatto al Paese con il referendum del 1987, che avrebbe privato l’Italia di energia abbondante, pulita e a basso costo.

L’energia nucleare non è abbondante: essa fornisce oggi un contributo al fabbisogno mondiale di energia pari ad un modesto 6,4% e, secondo le stime dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica delle Nazioni Unite, persino a questo ritmo, c’è uranio solo per 30 anni. Se l’energia nucleare dovesse rappresentare l’alternativa al petrolio, ci scanneremmo per l’uranio come ci scanniamo per il petrolio.

L’energia nucleare non è pulita: dosi comunque piccole di radiazioni, aggiungendosi al fondo naturale di radioattività, possono causare eventi sanitari gravi sui lavoratori e sulle popolazioni, nel funzionamento “normale” degli impianti e, ovviamente, nel caso di incidenti; resta irrisolto il problema dei rifiuti radioattivi, materia tuttora di ricerca, dopo il fallimento della prospettiva di utilizzare strutture saline. E quanto ai cambiamenti climatici, anche un raddoppio – invero improbabile - dei reattori oggi esistenti nel mondo darebbe un contributo insignificante alla riduzione della concentrazione di anidride carbonica.

L’energia nucleare non è a basso costo: la complessità del ciclo del combustibile, i dispositivi sempre più impegnativi per mitigare l’impatto sanitario degli impianti sono alla base della lievitazione del costo dell’energia prodotta e della situazione di crisi nei paesi più avanzati, che pure avevano perseguito con decisione nel passato questa produzione di energia.

Si aggiunge a questo il rischio di proliferazione – certificato nel 1980, per qualsiasi ciclo del combustibile nucleare, dallo studio INFCE delle Nazioni Unite - e di terrorismo.

E’ difficile tuttavia credere che gli elementi sin qui ricordati, noti a quanti – ricercatori, docenti, studenti – si occupino di energia nucleare, non siano stati portati a conoscenza del Governo e dunque è inevitabile cercare di individuare i motivi reali che hanno portato a questa decisione.

Si potrà oggi lucrare, con questa e con le altre iniziative di grandi opere pubbliche, un’immagine, di crescita e di capacità di decidere.

Si giustificherà, con questa immagine, una pratica – già inaugurata col decreto di Prodi sul segreto di stato sull’energia (DPCM 8.4.08) - di gestione autoritaria del rapporto con i cittadini, ai quali si potranno imporre procedure disinvolte, che potranno ampiamente generalizzarsi ad altre realizzazioni.

Si potranno estorcere allo Stato rilevanti risorse finanziarie per distribuirle a gruppi di imprese, indipendentemente dalle realizzazioni che si faranno o non si faranno. Ma in questo modo si sottrarranno risorse finanziarie rilevanti in termini di ricerca e soprattutto di realizzazioni in materia di tecnologie per l’uso efficiente dell’energia e per l’impiego delle fonti rinnovabili: si toglieranno cioè risorse vitali per una strategia alla quale siamo impegnati nel quadro degli obiettivi che l’Unione Europea si è data per il 2020: riduzione dei consumi del 20% e contributo del 20% delle fonti rinnovabili.

Bisogna opporsi subito a questa prospettiva e per questo saremo il 7 giugno alla manifestazione nazionale di Milano.

E bisognerà incalzare su questo terreno il Partito Democratico: su questa deriva sconcia e pericolosa non può esserci spazio a dialogo e compromessi.

GIANNI MATTIOLI

lunedì 9 giugno 2008

Nucleare, una scelta totalitaria da contrastare

dal sito radicali.it
Nucleare, una scelta totalitaria da contrastare

di Francesco Pullia

Oltre ad essere di retroguardia e perdente, quella del nucleare è una scelta pericolosa per la democrazia perché rispondente ad un modello di stato centralizzato, dall’alto verso il basso, rispetto ad un sistema (ri)distribuito in cui, invece, ognuno riesce a produrre la propria energia rinnovabile ed è in grado di scambiarla tramite reti intelligenti, del tipo di internet.

Jeremy Rifkin, filosofo ed economista americano di primo piano, nell’intervista rilasciata a La Repubblica e pubblicata sabato 7 giugno, ha parlato con estrema chiarezza. E di lui c’è da fidarsi. Difficile non conoscere e apprezzare i suoi lavori.

A chi ancora non ha, tuttavia, confidenza con il suo pensiero e la sua ricerca consigliamo almeno quattro libri a nostro avviso basilari: La fine del lavoro (Baldini & Castoldi, 1995) Entropia (Baldini & Castoldi, 2000), Ecocidio (Mondatori, 2001), Economia all’idrogeno (Mondatori, 2002).

Una delle sue doti migliori sta nella capacità di spiegare in modo molto semplice questioni estremamente complesse prospettando sempre utili indicazioni.

E anche stavolta non si è smentito. L’orientamento filonuclearista dell’attuale maggioranza governativa, oltre ad essere retrogrado e infelice perché non tiene affatto conto delle conseguenze che ne deriveranno,risponde ad una sorta di innamoramento ideologico, di posizione preconcetta fallimentare non priva di tentazione totalitaria. Vediamo perché.

Innanzitutto il nuclearismo ad oltranza non considera che le centrali sono sì a bassa probabilità di incidente ma, purtroppo, ad alto rischio. In altri termini, non è affatto peregrino che, nel caso in cui si verifichi qualche guasto, si possano provocare eventi catastrofici come quello di Chernobyl.

In secondo luogo, quella nucleare non è, come si vuole fare credere, una fonte pulita. Infatti, per ottenere un apprezzabile impatto sull’ambiente e ridurre del 20% l’emissione il diossido di carbonio, bisognerebbe costruire tre centrali al mese per i prossimi sessant’anni.

Ora, si domanda giustamente Rifkin, può esserci qualcuno sano di mente che ritiene possibile procedere con questo ritmo?

Ci sono, poi, due argomenti inoppugnabili: lo stoccaggio delle scorie radioattive e l’inevitabile diminuzione dell’uranio.

“Gli Stati Uniti”, afferma lo studioso, “hanno straordinari scienziati e hanno investito otto miliardi di dollari in diciotto anni per stoccare i residui all’interno delle montagne Yucca dove avrebbero dovuto restare al sicuro per quasi diecimila anni. Bene, hanno cominciato a contaminare l’area nonostante i calcoli, i fondo e i superingegneri. Davvero l’Italia crede di poter far meglio?”

Inoltre, gli studi dell’agenzia internazionale per l’energia atomica confermano che l’uranio comincerà a scarseggiare nel decennio 2025-2035. Pertanto, i costi subiranno un’impennata con forti ripercussioni sulla produzione d’energia. Si potrebbe ricorrere al plutonio ma si tratta, pur sempre, di un’ipotesi da scartare perché “con quello è più facile costruire bombe”.

E ancora: per raffreddare i reattori si sottrae alla popolazione, e si spreca, un ingente quantitativo di acqua potabile. Si pensi a quanto accaduto in Francia nell’estate di cinque anni fa, quando numerosi anziani morirono per il caldo. Allora scarseggiò l’acqua per il raffreddamento degli impianti e la riduzione dell’erogazione dell’energia elettrica impedì l’utilizzazione dei condizionatori d’aria condizionata.

Se così stanno le cose qual è l’alternativa da adottare? La cosiddetta terza rivoluzione industriale, cioè un sistema in cui si produce e si scambia energia rinnovabile. E’ questa la via che pare più consona al territorio italiano dove non mancano, di certo, sole e vento e si può altresì ricorrere alla geotermia e allo sfruttamento delle biomasse. Ed è in questo ambito che, purtroppo, come i radicali non si stancano di denunciare, si accusano enormi ritardi rispetto ad altri paesi europei.

“Bisogna cominciare”, sostiene Rifkin, “a costruire abitazioni che abbiano al loro interno le tecnologie per produrre energie rinnovabili,come il fotovoltaico. Non è un’opzione, ma un obbligo comunitario quello di arrivare al 20%”.

In caso contrario, cioè in caso di scelta nuclearista, arriveremo a scenari simili a quelli prodottisi a Napoli con i rifiuti. Solo che, al posto dei sacchetti di immondizia, ci saranno scorie radioattive…

domenica 8 giugno 2008

Il nucleare? Tutta fatica sprecata, parola di Jeremy Rifkin

Il nucleare? Tutta fatica sprecata, parola di Jeremy Rifkin
“Vi immaginate uno scenario tipo Napoli, ma dove i rifiuti fossero radioattivi?”

Questa la provocazione di Jeremy Rifkin, economista e scrittore statunitense, molto attento ai problemi che riguardano l’ambiente e i diritti dell’uomo. “Una fatica inutile“. E’ così che comincia la sua intervista a Repubblica, a proposito delle centrali nucleari.

E’ un fiume in piena Rifkin che si schiera con forza contro il nucleare, e spera che in Italia ci ripensino, prima che sia troppo tardi. Prima di fare ipotesi azzardate o accuse senza senso, leggete le sue parole che ora seguono.


Il primo pensiero va alle scorie radioattive. Esse sono talmente pericolose, dice Rifkin, che se oggi improvvisamente decidessimo di smantellare tutte le centrali nucleari del mondo, sarebbe uno sforzo inutile perchè il risparmio nelle emissioni sarebbe veramente minimo. L’unico modo per salvare il salvabile è non crearne di nuove. In America, per liberarsene, hanno deciso di stoccarle all’interno di una montagna, investendo 8 miliardi di dollari. Difficilmente una soluzione del genere potrebbe essere presa in Italia. Si finirebbe per formare ecoballe di scorie radioattive, magari da mandare in qualche discarica della Campania.

l'articolo completo a questo link

sabato 7 giugno 2008

Paura atomica in Slovenia

Paura atomica in Slovenia

di Francesca Longo e Matteo Moder

Il Manifesto del 05/06/2008

Incidente alla centrale nucleare di Krsko, a 130 km da Trieste Già nel 2005 i Verdi avevano presentato un'interpellanza sulla centrale, considerata una delle meno sicure d'Europa e «gradita» a D'Alema. Ma non c'era stata risposta. Perdita d'acqua, fermato il reattore. L'Ue lancia l'allarme, le autorità minimizzano: non c'è stata nessuna fuga radioattiva. E' il terzo episodio in quattro anni nella centrale, nel mirino degli ambientalisti

Nessun problema. La «fuga di materiale radioattivo» dalla centrale di Krsko, Slovenia, non è altro che un allarme civile, seriamente controllato dal governo sloveno che ha immediatamente avvisato la Commissione Europea su un guasto all'impianto. Dalle televisioni slovene, a partire dalle 17 e 38 di ieri, si è a perfetta conoscenza di un arresto dell'impianto in via preventiva a causa di una perdita d'acqua del sistema primario del reattore, nel tardo pomeriggio funzionante al 22% e in attesa di arresto. Impianto chiuso alle 21 e 30. Tutto è sotto controllo, nessuno stato d'allerta, nessuna fuga radioattiva. Roma conferma, Guglielmo Berlasso, responsabile della protezione civile del Friuli Venezia Giulia, in stretto contatto coi colleghi sloveni, ribadisce il concetto in Italia.
Tutti tranquilli, dunque. E in effetti a Trieste non ci si accorge di nulla. Ci sia o meno qualcosa di radioattivo nell'aria lo scopriremo solo vivendo. Qualsiasi nube radioattiva non conosce stoj, stop, su un confine che non esiste più e, come ricorda Franco Juri- già segretario di stato sloveno, ambasciatore e oggi giornalista e scrittore - «si tratta del terzo incidente in quattro anni, che arriva proprio mentre il governo discute su un raddoppio della centrale, al momento bloccato, ma visto con favore».
Il governo tedesco ha mobilitato in serata i propri servizi. «Il governo federale ha dato mandato ai propri servizi competenti di esaminare e valutare l'incidente», ha detto il viceministro dell'ambiente Michael Mueller. Da parte sua, la sezione tedesca di Greenpeace ha sottolineato come una tale allerta europea sia «molto insolita». La Lombardia ha mobilitato l'Arpa. Il presidente del Friuli Venezia Giulia non rilascia dichiarazioni.
Krsko è situata nel sud-ovest della Slovenia, e secondo le carte stradali risulta essere a 188 chilometri via strada e 130 via aria da Trieste. Da sempre contestata per la sua pericolosità da associazioni ecologiste di Italia e Slovenia, anche per il carattere fortemente sismico della zona, fu al centro di un aspro contenzioso politico tra Slovenia e Croazia alla dissoluzione della Federativa jugoslava. La centrale fu anche minacciata di bombardamenti da parte dell'aviazione serba sempre durante la guerra e grande apprensione suscitò, in quegli anni, il problema dello smaltimento delle scorie radioattive i cui depositi, per propaganda di guerra o altro, furono definiti ormai al limite della saturazione. La centrale, che dall'inizio degli anni 2000 è comproprietà di Slovenia e Croazia è stata anche al centro di un affaire con il nostro ministro degli esteri D'Alema, che agli inizi del 2007 si sarebbe detto favorevole al raddoppio del reattore della centrale in cambio della costruzione di un rigassificatore nel golfo di Trieste.
Nel febbraio del 2005 fu discussa alla Camera dei deputati un'interpellanza urgente presentata da Luana Zanella (Verdi) ai ministri della salute, degli esteri e dell'ambiente, che affrontava il grave e irrisolto problema della sicurezza di Krsko e le conseguenze che in caso di incidente all'impianto si sarebbero avute sul territorio nazionale anche a seguito della «totale impreparazione delle autorità italiane preposte a gestire l'emergenza radiologica». L'interpellanza riprendeva l'azione di denuncia che gli Amici della Terra avevano da anni avviato nei confronti di una delle centrali nucleari meno sicure presenti sul territorio europeo e sulla mancata attuazione da parte italiana delle normative comunitarie in materia di prevenzione radiologica e di informazione ed addestramento della popolazione a questo tipo di emergenze. Questa cortina fumogena tesa a coprire una situazione scottante ed una scomoda verità poteva in parte spiegarsi, secondo l'interpellanza, con la rinascente politica nucleare italiana.
La Centrale di Krsko è una delle più piccole centrali europee in attività, costruita nel 1981 ha iniziato a produrre energia nel 1983 ed è costituita da un reattore Westinghouse, che utlizza uranio arricchito. Fornisce più di un quarto dell'energia necessaria alla Slovenia e un quinto di quella croata. E' gestita congiuntamente dalle società elettriche slovena e croata del 2002. Rappresenta uno dei maggiori rischi per la sicurezza dell'Italia settentrionale, dell'Austria meridionale (Carinzia), della Slovenia e della Croazia. La centrale ha in funzione un reattore Westinghouse da 632 Mw che fin dall'inizio dell'attività (iniziata nel 1983 con 5 anni di ritardo sui tempi previsti causa problemi tecnici) ha manifestato numerosi problemi. Una Commissione Internazionale nominata, su pressioni di Austria ed Italia, per verificare gli standard di sicurezza della centrale già nel 1993 espresse 74 raccomandazioni sui cambiamenti tecnici e procedurali necessari per adeguare l'impianto alle più severe normative dell'Ue. Uno dei principali problemi dell'impianto è costituito dalle incrinature dei generatori di vapore che determinano perdite (con fuoriuscita di radionuclidi che vengono dispersi nell'atmosfera); questo problema è d'altronde noto presentandosi in tutte le centrali che utilizzano il reattore Westinghouse. Per cercare di tamponare questo grave inconveniente, nella primavera del 2000 vennero installati due nuovi generatori dalla Nek in seguito ad un accordo sottoscritto con il consorzio Siemens/Framatome. Il costo di tale intervento fu di 205 milioni di marchi. Dopo questo intervento venne approvato un aumento della produzione del 6% (45 Mw) con i conseguenti rischi di sovrasfruttamento del reattore e senza che i problemi dei generatori fossero stati definitivamente risolti. Attualmente la centrale ha una produzione superiore ai 700 Mw.
Altro grave problema per la sicurezza è quello relativo allo smaltimento delle scorie radioattive. La Slovenia non ha una destinazione finale per i rifiuti nucleari, ma solo due siti di stoccaggio temporaneo, e la questione di una soluzione definitiva per i rifiuti prodotti nella fase operativa e dallo smantellamento (previsto dopo il 2024) è stata differita al termine del funzionamento dell'impianto.