Cantiere Italia, dal nucleare al Ponte: 30 miliardi di conto
Corriere della Sera Economia del 2 giugno 2008, pag. 2
di Sergio Rizzo
Il primo dubbio l’ha insinuato Roberto Calderoli. «Siamo sicuri che il ponte sullo stretto i siciliani lo vogliono?» ha domandato il ministro della Semplificazione appena due settimane più tardi delle elezioni che la sua coalizione aveva vinto. E prima che il suo collega di partito, il sottosegretario alle Infrastrutture Roberto Castelli, già ministro della Giustizia, ci mettesse sopra una pesante ipoteca leghista: «I lavori per la costruzione del ponte sullo stretto possono partire .solo se contestualmente prendono il via anche i lavori per la costruzione dell’alta velocità Torino Lione».
Naturalmente ci spiegheranno che non c’è alcuna contraddizione fra le parole del sottosegretario e quelle del suo ministro Altero Matteoli, il quale, pochi minuti dopo aver giurato nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha affermato lapidario: «Il ponte sullo stretto va rimesso in moto». Ma i numeri valgono purtroppo più di ogni presunta o reale contraddizione.
Il ponte sullo stretto di Messina costa almeno 5 miliardi di euro. Ed era l’unica grande opera per la quale i soldi c’erano sicuramente, ed erano an- che immediatamente spendibili. Ce li metteva Fintecna, l’ultimo avamposto delle partecipazioni statali: ma poi quei soldi sono stati spesi chissà quante volte. La penultima, erano stati dirottati dal governo di Romano Prodi (quelli che erano rimasti, vale a dire 1,3 miliardi) verso alcune opere viarie in Sicilia e Calabria, come la Statale 106 tra Crotone e Rossano ionico, la tangenziale di Reggio Calabria e le metropolitane siciliane.
L’ultima, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha deciso di stornarli anche da quei capitoli per far fronte ai primi provvedimenti del governo di Silvio Berlusconi, fra cui l’abolizione dell’Imposta comunale sugli immobili relativa alla prima casa e la detassazione degli straordinari.
Una mossa che è stata interpretata da qualcuno come il segnale che il ponte, nonostante quello che dice Matteoli, sta scivolando indietro nelle priorità infrastrutturali. Forse anche per ragioni politiche, visto che la Lega non l’ha mai digerito. Ma le altre quali sono?
Nell’elenco che Matteoli ha stilato a braccio, subito dopo il giuramento, c’è il Passante di Mestre, che invece al Carroccio sta particolarmente a cuore: 750 milioni, che però sono già finanziati. Poi ci sono le dighe mobili del Mose di Venezia: altri 4,2 miliardi, di cui 2 miliardi 691 milioni ancora da finanziare. Quindi il raddoppio di alcuni tratti dell’autostrade Roma Firenze (costo imprecisato) e «i due corridoi transeuropei dell’alta velocità». Leggasi Torino-Lione, opera che secondo un dossier sulle infrastrutture strategiche appena pubblicato dal Senato avrebbe un costo di 5 miliardi e 16 milioni di euro.
Infine, e non poteva non esserci, c’è l’autostrada fra Civitavecchia e Cecina, città di cui Matteoli è originario. Si tratta dell’opera che sta più a cuore al ministro. Un’autentica fissazione, motivata anche da ragioni personali . Nel 1985 Matteoli fu vittima, ha raccontato egli stesso, «di un terrificante incidente stradale» sull’Aurelia, vicino a Grosseto. Del quale conserva un ri- cordo indelebile: «Mi sono trascinato per mesi con le stampelle e he capito bene che cosa vuol dire morire sulla strada per colpa di infrastrutture inadeguate», ha raccontato nel 2002 a Cecilia Zecchinelli sul Corriere Economia.
Piccolo particolare, il tratto autostradale che dovrebbe essere gestito dalla Società autostrada tirrenica di cui è presidente l’ex sottosegretario ai lavori pubblici diessino, Antonio Bargone, costa 2,9 miliardi.
Insomma, per i primi interventi di cui ha parlato Matteoli servirebbero almeno 15 miliardi di euro. Ponte compreso: perché se è vero che il collegamento fra Scilla e Cariddi rischia di scivolare indietro nella classifica delle priorità, è pur vero che c’è già firmato un contratto in essere con il general contractor Impregilo. Che difficilmente il governo Berlusconi deciderà di non onorare.
A questi soldi si devono poi aggiungere quelli necessari per il rilancio del nucleare, che il ministro dello Sviluppo economico (Berlusconi ha conservato a questo dicastero il nome che gli aveva dato Romano Prodi) Claudio Scajola vuole assolutamente realizzare.
Di che cifra si parla, è difficile dire. Anche perché gli investimenti per le nuove centrali non dovrebbero essere a carico dello Stato, ma delle società elettriche. Il governo dovrebbe comunque reperire le risorse finanziarie per incentivare i comuni che accoglieranno nel loro territorio gli impianti atomici.
Quanti dovrebbero essere? Almeno cinque, forse addirittura sei. La scelta dei siti, com’è facilmente comprensibile, sarà il passaggio più delicato. E per quanto i tecnici dell’Enel sostengano che è molto più facile costruire una centrale sul cosiddetto green field, cioè un terreno vergine, sarà inevitabile riconsiderare le aree dove sono già presenti i vecchi impianti. Non fosse altro perché hanno le caratteristiche idonee a ospitare centrali atomiche, come il territorio di Montalto di Castro, sul litorale laziale quasi ai confini con la Toscana.
Gli esperti della società elettrica pensano che sia possibile produrre con l’energia nucleare, nell’arco di otto o nove anni (tenendo conto che per la realizzazione di un impianto servirebbero quattro anni e mezzo, disponendo di tutte le autorizzazioni) un quantitativo pari all’elettricità che ogni anno acquistiamo dalla Francia e dalla Svizzera, e che copre circa il 15-20% del nostro fabbisogno.
Un paradosso delle scellerate scelte seguite al referendum del 1987: quelle di non puntare, come invece era stato promesso, sulle fonti rinnovabili, ma di far fronte al fabbisogno in continuo aumento bruciando combustibili fossili e comprando elettricità dall’estero prodotta con il nucleare.
E siccome ogni nuova centrale da 1.600 megawatt avrebbe un costo di circa 3 miliardi di euro, anche per l’energia atomica servirebbero almeno 15 miliardi.
Una somma che potrebbe essere facilmente reperita sul mercato bancario internazionale. Anche se l’Enel, dove si è già cominciato ad affrontare il problema, punta a replicare il modello scelto ora dalla Finlandia per finanziare una nuova grande centrale nucleare.
È la via consortile: si tratta di costituire dei consorzi per coinvolgere nell’operazione altre società elettriche e i grandi consumatori di energia, come le imprese siderurgiche o cementiere, allo scopo di ridurre l’impegno finanziario e ripartire il rischio. A meno di non prendere per buona la proposta di Sali Berisha e andare a costruirle in Albania, le centrali atomiche.
Corriere della Sera Economia del 2 giugno 2008, pag. 2
di Sergio Rizzo
Il primo dubbio l’ha insinuato Roberto Calderoli. «Siamo sicuri che il ponte sullo stretto i siciliani lo vogliono?» ha domandato il ministro della Semplificazione appena due settimane più tardi delle elezioni che la sua coalizione aveva vinto. E prima che il suo collega di partito, il sottosegretario alle Infrastrutture Roberto Castelli, già ministro della Giustizia, ci mettesse sopra una pesante ipoteca leghista: «I lavori per la costruzione del ponte sullo stretto possono partire .solo se contestualmente prendono il via anche i lavori per la costruzione dell’alta velocità Torino Lione».
Naturalmente ci spiegheranno che non c’è alcuna contraddizione fra le parole del sottosegretario e quelle del suo ministro Altero Matteoli, il quale, pochi minuti dopo aver giurato nelle mani del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha affermato lapidario: «Il ponte sullo stretto va rimesso in moto». Ma i numeri valgono purtroppo più di ogni presunta o reale contraddizione.
Il ponte sullo stretto di Messina costa almeno 5 miliardi di euro. Ed era l’unica grande opera per la quale i soldi c’erano sicuramente, ed erano an- che immediatamente spendibili. Ce li metteva Fintecna, l’ultimo avamposto delle partecipazioni statali: ma poi quei soldi sono stati spesi chissà quante volte. La penultima, erano stati dirottati dal governo di Romano Prodi (quelli che erano rimasti, vale a dire 1,3 miliardi) verso alcune opere viarie in Sicilia e Calabria, come la Statale 106 tra Crotone e Rossano ionico, la tangenziale di Reggio Calabria e le metropolitane siciliane.
L’ultima, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha deciso di stornarli anche da quei capitoli per far fronte ai primi provvedimenti del governo di Silvio Berlusconi, fra cui l’abolizione dell’Imposta comunale sugli immobili relativa alla prima casa e la detassazione degli straordinari.
Una mossa che è stata interpretata da qualcuno come il segnale che il ponte, nonostante quello che dice Matteoli, sta scivolando indietro nelle priorità infrastrutturali. Forse anche per ragioni politiche, visto che la Lega non l’ha mai digerito. Ma le altre quali sono?
Nell’elenco che Matteoli ha stilato a braccio, subito dopo il giuramento, c’è il Passante di Mestre, che invece al Carroccio sta particolarmente a cuore: 750 milioni, che però sono già finanziati. Poi ci sono le dighe mobili del Mose di Venezia: altri 4,2 miliardi, di cui 2 miliardi 691 milioni ancora da finanziare. Quindi il raddoppio di alcuni tratti dell’autostrade Roma Firenze (costo imprecisato) e «i due corridoi transeuropei dell’alta velocità». Leggasi Torino-Lione, opera che secondo un dossier sulle infrastrutture strategiche appena pubblicato dal Senato avrebbe un costo di 5 miliardi e 16 milioni di euro.
Infine, e non poteva non esserci, c’è l’autostrada fra Civitavecchia e Cecina, città di cui Matteoli è originario. Si tratta dell’opera che sta più a cuore al ministro. Un’autentica fissazione, motivata anche da ragioni personali . Nel 1985 Matteoli fu vittima, ha raccontato egli stesso, «di un terrificante incidente stradale» sull’Aurelia, vicino a Grosseto. Del quale conserva un ri- cordo indelebile: «Mi sono trascinato per mesi con le stampelle e he capito bene che cosa vuol dire morire sulla strada per colpa di infrastrutture inadeguate», ha raccontato nel 2002 a Cecilia Zecchinelli sul Corriere Economia.
Piccolo particolare, il tratto autostradale che dovrebbe essere gestito dalla Società autostrada tirrenica di cui è presidente l’ex sottosegretario ai lavori pubblici diessino, Antonio Bargone, costa 2,9 miliardi.
Insomma, per i primi interventi di cui ha parlato Matteoli servirebbero almeno 15 miliardi di euro. Ponte compreso: perché se è vero che il collegamento fra Scilla e Cariddi rischia di scivolare indietro nella classifica delle priorità, è pur vero che c’è già firmato un contratto in essere con il general contractor Impregilo. Che difficilmente il governo Berlusconi deciderà di non onorare.
A questi soldi si devono poi aggiungere quelli necessari per il rilancio del nucleare, che il ministro dello Sviluppo economico (Berlusconi ha conservato a questo dicastero il nome che gli aveva dato Romano Prodi) Claudio Scajola vuole assolutamente realizzare.
Di che cifra si parla, è difficile dire. Anche perché gli investimenti per le nuove centrali non dovrebbero essere a carico dello Stato, ma delle società elettriche. Il governo dovrebbe comunque reperire le risorse finanziarie per incentivare i comuni che accoglieranno nel loro territorio gli impianti atomici.
Quanti dovrebbero essere? Almeno cinque, forse addirittura sei. La scelta dei siti, com’è facilmente comprensibile, sarà il passaggio più delicato. E per quanto i tecnici dell’Enel sostengano che è molto più facile costruire una centrale sul cosiddetto green field, cioè un terreno vergine, sarà inevitabile riconsiderare le aree dove sono già presenti i vecchi impianti. Non fosse altro perché hanno le caratteristiche idonee a ospitare centrali atomiche, come il territorio di Montalto di Castro, sul litorale laziale quasi ai confini con la Toscana.
Gli esperti della società elettrica pensano che sia possibile produrre con l’energia nucleare, nell’arco di otto o nove anni (tenendo conto che per la realizzazione di un impianto servirebbero quattro anni e mezzo, disponendo di tutte le autorizzazioni) un quantitativo pari all’elettricità che ogni anno acquistiamo dalla Francia e dalla Svizzera, e che copre circa il 15-20% del nostro fabbisogno.
Un paradosso delle scellerate scelte seguite al referendum del 1987: quelle di non puntare, come invece era stato promesso, sulle fonti rinnovabili, ma di far fronte al fabbisogno in continuo aumento bruciando combustibili fossili e comprando elettricità dall’estero prodotta con il nucleare.
E siccome ogni nuova centrale da 1.600 megawatt avrebbe un costo di circa 3 miliardi di euro, anche per l’energia atomica servirebbero almeno 15 miliardi.
Una somma che potrebbe essere facilmente reperita sul mercato bancario internazionale. Anche se l’Enel, dove si è già cominciato ad affrontare il problema, punta a replicare il modello scelto ora dalla Finlandia per finanziare una nuova grande centrale nucleare.
È la via consortile: si tratta di costituire dei consorzi per coinvolgere nell’operazione altre società elettriche e i grandi consumatori di energia, come le imprese siderurgiche o cementiere, allo scopo di ridurre l’impegno finanziario e ripartire il rischio. A meno di non prendere per buona la proposta di Sali Berisha e andare a costruirle in Albania, le centrali atomiche.
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