Dubbi e promesse I dieci punti aperti del nucleare
Corriere della Sera Magazine del 19 giugno 2008, pag. 47
di Sara Gandolfi
Per gli addetti ai lavori è «un paradiso incastonato tra il blu del mare e il verde dei boschi». Un paradiso nucleare. «Due reattori sono già in funzione, uno di ultima generazione è in costruzione e presto potrebbe arrivarne un quarto. Hanno un sito per i rifiuti a bassa e media attività, la piscina per lo stoccaggio temporaneo del combustibile esaurito e stanno studiando il deposito geologico profondo per i rifiuti ad alta attività. Una soluzione retrivable: le scorie sono stivate 500 metri sotto il suolo ma se tra 20 o 50 anni si troverà il modo per "bruciarle" i finlandesi potranno andare a riprenderle. E la popolazione è d’accordo». Marco Ricotti, docente di ingegneria nucleare al Politecnico di Milano, poche settimane fa ha partecipato al tour guidato organizzato dalla Regione Lombardia a Olkiluoto-3, primo impianto del "rinascimento nucleare", costruito su un isolotto lungo la costa meridionale del Paese scandinavo. "Paradisi" simili stanno lentamente (ri)sorgendo in vari angoli del globo. Un trend che, al di là dei presunti vantaggi economici o ambientali ancora da dimostrare appieno, troverebbe la sua più urgente ragion d’essere nella crisi dei prezzi dei combustibili fossili e nell’instabilità (se non ostilità) politica delle aree dove essi si trovano. In Asia, poi, la spinta al nucleare ha le dimensioni di un’ondata: 6 reattori in costruzione in Cina, 6 in India, 3 in Corea,1 in Giappone,1 in Pakistan secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). Un carro in corsa sul quale il governo Berlusconi vuoi far salire anche l’Italia, tra i primi Paesi a scegliere il nucleare civile - è del 1963 l’impianto di latina - finché il referendum dell’87 spense le centrali. «Per il 2013 creeremo le condizioni perché venga messa la prima pietra di un gruppo di centrali di nuova generazione», ha sostenuto il ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola. Ventun anni dopo, smaltita ma non del tutto la paura di una seconda Chernobyl, quali opzioni ha davanti a sé l’Italia, quali i possibili rischi?
EVOLUZIONE IN TRE TAPPE
«Quasi tutti i 439 reattori a uso civile funzionanti oggi nel mondo appartengono alla cosiddetta Il generazione, reattori sicuri che nulla hanno a che vedere con Chernobyl», chiarisce Stefano Monti, responsabile Enea perla definizione dei programmi di ricerca e sviluppo sulla fissione; «anche in seguito all’incidente del 1986, irripetibile perché avvenuto in un impianto obsoleto e privo di contenitore, c’è stata comunque una forte spinta a investire in reattori sempre più sicuri: la III generazione di cui si vedono oggi le prime realizzazioni». Come l’Epr della franco-tedesca Areva (Olkiluoto-3 sarà seguito da un impianto a Flamanville, Francia), l’Apl000 della nippo-americana Westinghouse-Toshiba o l’Abwr della Mitsubishi-General Electric.
Per stessa ammissione dei costruttori, Epr e i suoi fratelli sono un’evoluzione, non una rivoluzione, dei reattori precedenti: riducono i costi grazie alla maggiore flessibilità operativa e a un uso più efficiente del combustibile, sia esso uranio arricchito 235 o una miscela di ossidi di uranio e di plutonio (MOx) prodotta dagli impianti di riprocessamento (vedi più avanti). In più sono dotati di una serie di dispositivi di tipo passivo, che non richiedono cioè l’intervento di un operatore, destinati a mettere in sicurezza gli impianti anche in caso di eventi estremi. Progetti di nuova concezione cui partecipa anche l’Italia: Ansaldo produce i contenitori di sicurezza dell’Ap1000 mentre Enel ha una quota del 12,5% nel progetto di Flamanville (e manda tirocinanti in loco).
PROBLEMA RIFIUTI
Il nucleare non emette gas climalteranti (eccetto il vapore acqueo delle torri di raffreddamento, che comunque condensa in poco tempo) ma, che si tratti di II o III generazione, produce rifiuti radioattivi. Una volta esaurito il fissile presente nel combustibile, infatti, restano i sottoprodotti della reazione a catena: una gamma di isotopi con tempi di decadimento molto variabili, anche di centinaia di migliaia di anni. Nell’Unione europea a 25, dove il nucleare contribuisce per circa il 33% del fabbisogno complessivo di energia elettrica, ogni anno vengono prodotti circa 40.000 metri cubi di rifiuti radioattivi, dei quali 4.000 sono quelli ad alta attività e a lunga vita, categoria 3. Per il loro stoccaggio è necessario ricorrere a barriere naturali, come le formazioni geologiche in profondità. Li quantità totale di scorie potrebbe però ridursi notevolmente. sia tramite ritrattamento nucleare sia con i reattori autofertilizzanti veloci di IV generazione. Processi che richiederanno ingenti investimenti e che lanciano pesanti incognite sui futuri costi dell’elettricità "pulita" da nucleare.
RIPROCESSAMENTO
Per motivi di carattere tecnologico, il combustibile non può essere lasciato indefinitamente all’interno del reattore: a un certo punto bisogna scaricarlo sebbene lo sfruttamento sia incompleto. Nei cicli one through si prende il combustibile irraggiato sfruttato, contenente prodotti radioattivi, e lo si mette in un deposito geologico.
Nei cicli che prevedono il riprocessamento viene invece spedito in un impianto ad hoc: qui si separano chimicamente i radioisotopi dal resto Ilei prodotti di fissione e si crea una nuova miscela. In particolare, si utilizza il plutonio generato nel reattore e lo si mescola con nuovo uranio. Servirà per produrre energia: i nuovi reattori possono ospitare sia ossidi di uranio sia ossidi misti uranio-plutonio (A10x) che arrivano dall’impianto di riprocessamento. La Francia ha adottato questo schema da anni. Gli americani, dai tempi di Jimmy Carter, hanno preferito lo schema one through per evitare il rischio di proliferazione nucleare e di "bombe sporche". «Oggi si stanno però rendendo conto che i loro 104 reattori, nel lungo periodo, potrebbero intasare il deposito di Yucca Mountain, in Nevada (peraltro non attivo prima del 2017 e oggetto di forti contestazioni, ndr) e stanno riconsiderando l’ipotesi "riciclo"», spiegano all’Enea. Il fisico Frank von Hippel della Princeton University non concorda: il MOx, una volta irradiato, contiene ancora circa il 70% del plutonio di partenza e il problema dello stoccaggio, quindi, sarebbe solo rinviato.
QUARTA GENERAZIONE
Il vero salto tecnologico è verso i reattori di IV generazione, ancor più sicuri e capaci di produrre meno rifiuti, o addirittura di bruciare quelli prodotti dalle generazioni precedenti. «Allo studio ci sono reattori raffreddati a gas ad alta temperatura che potrebbero produrre idrogeno, facendo quindi entrare il nucleare anche nel settore dei trasporti», spiega Ricotti del Politecnico «ma la parte dei leone spetta ai reattori veloci. Essi prevedono l’utilizzo di neutroni veloci, molto più energetici rispetto a quelli termici dei reattori attuali e per questo in grado di mantenere più a lungo la reazione a catena, ossia la fissione dell’uranio o del plutonio che crea energia. Risultato: il combustibile è sfruttato meglio. Inoltre, questi reattori generano neutroni in eccesso permettendo di produrre più combustibile fissile (Pu239) di quello originariamente introdotto». La tecnologia dei reattori veloci non è nuova: è già stata sperimentata nel reattore francese Superphenix, frutto di una joint venture franco-tedesco-italiana e chiuso nel 1998. Insomma, non si parte dal nulla. Con qualche controindicazione. Il processo di separazione e riconfezionamento del nuovo combustibile prodotto è un costo aggiuntivo notevole e poi c’è la questione dei tempi. Ci vorranno anche più di 20-30 anni e il fatto che una tecnologia sia disponibile non vuol dire che il mercato sia pronto ad accettarla: l’industria ha fatto investimenti notevoli per sviluppare la III generazione, che avrà una durata prevista di 60 anni. Anche se la IV generazione fosse pronta alla vendita nel 2030 chi la comprerebbe? Prima bisogna ammortizzare i costi della III. All’Italia non conviene allora aspettare, come propone il Nobel Carlo Rubbia (vedi intervista a pag. 56)?
RITARDI
«I reattori di III generazione sono realtà oggi. Per il resto è necessario un salto tecnologico di molti anni. Rubbia ha riproposto il ciclo uranio-torio, bellissima cosa ma sia chiaro che oggi nessuno al mondo lo fa. Dopo magari aspettiamo la fusione, ben che vada se ne parla fra 50-60 anni... Se la nazione ha un problema di mix energetico nel medio termine, la decisione deve essere presa con le tecnologie mature e disponibili sul mercato», avverte Monti dell’Enea. «Deve essere però una scelta Paese, il nucleare ha una complessità tale che può essere riaperto solo se c’è una decisione bipartisan alla base». Nel caso, l’Italia dovrà ricostruire un intero sistema: «Abbiamo distrutto le competenze: paradossalmente la nostra maggiore preoccupazione non è comprare il reattore e metterlo sul sito ma avere un’organizzazione tecnico-scientifica che gli stia intorno, che sappia farlo funzionare. Non è come fare scarpe. E poi serve la certezza della programmazione, degli investimenti, del personale», denuncia Graziano Fortuna, dell’Istituto di fisica nucleare (Infn), che si occupa di ricerca di base: «Non si farà mai la IV generazione se non ci si allena con la III».
OPZIONE ITALIANA Il ministro Scajola ha citato il modello Epr... La scelta migliore? «Oggi il mercato dell’energia è libero e i conti vanno fatti secondo le leggi di quel mercato. Si dovrà fare una gara e vincerà l’azienda che offrirà le condizioni migliori», sostiene Monti dell’Enea: «L’obiettivo a medio termine è di coprire almeno il 15-20% del fabbisogno. Adesso la potenza impegnata in Italia è di 50-57 gigawatt, tra 10-20 anni potrebbero diventare 65. Una centrale Epr è di 1,6 gigawatt, quindi stiamo parlando di almeno 6 centrali ». I tempi? L’impianto finlandese richiederà 13-14 anni per entrare in funzione. Il governo della Gran Bretagna, Paese con lunga e ininterrotta tradizione nucleare, ha da parte sua annunciato la costruzione di 8 centrali nucleari di III generazione per il 2020. Può forse l’Italia fare meglio? «Mi attirerò le ire di Scajola, ma non avremo centrali entro 5 o 10 anni. Auspico, semmai, che fra trent’anni il mixing energetico in Italia sia 30% nucleare, 30 rinnovabile, 30 fossile, 10 altro», conclude Monti.
COSTI E BENEFICI
Per far ripartire il settore in Usa (ben 29 reattori potrebbero aggiungersi ai 104 esistenti) l’Amministrazione Bush ha offerto cospicui sussidi ai gestori privati, Costi e tempi di costruzione sono infatti molto maggiori di una centrale tradizionale, anche se il costo dell’energia prodotta sarebbe poi competitivo: obiettivo dell’Erp, per esempio, è portare 1 MWh di energia a 30 curo. Eppure un dossier di Wwf, Greenpeace e Legambiente contesta l’economicità della scelta nucleare: tra costi industriali e sussidi un MWh, oggi, raggiungerebbe 80 dollari. Quanto costa un reattore? Dipende dall’accordo fra le parti. Alla Finlandia l’Epr è stato venduto chiavi in mano per 3,2 miliardi di euro (i ritardi sono a carico di Areva). Ben più dura, sussurrano gli esperti, sarebbe stata la trattativa con i cinesi, che oltre all’impianto vogliono il know how: prendono i primi reattori, imparano tutto quello che c’è da imparare e quelli successivi se li costruiscono da soli... Hanno preteso il technology transfer sennò non compravano. Westinghouse ha accettato, Areva si era rifiutata ma poi ha ceduto: pare abbia venduto l’Epr a un prezzo inferiore di quello fatto ai finlandesi.
DEPOSITI DI SCORIE
«Invece di decadere in 1.000-3.000 anni, la radioattività sparirà in 200-300 anni ma il problema delle scorie non sparirà», avverte il professor Marco Ricotti. «D’altra parte, non esiste l’energia "pulita", che sia nucleare o no. L’energia di per sé ha un impatto sull’ambiente, anche quella rinnovabile utilizza materiali tossico-nocivi nei pannelli fotovoltaici». Se non riusciamo a gestire i rifiuti di Napoli, come possiamo affrontare le scorie radioattive? «Esistono soluzioni tecniche consolidate, si possono individuare anche in Italia siti sicuri dove stoccarle e in futuro si potrebbe pensare a un deposito geologico comunitario per quelli ad alta attività». La Russia ha già offerto la sua steppa in Siberia...
SICUREZZA
Il nucleare non emette CO2, perché non sfrutta il principio della combustione per la produzione di calore. I gruppi ambientalisti denunciano però i rischi di contaminazione in tutto il ciclo del nucleare, dall’estrazione dell’uranio allo smaltimento delle scorie, e lo spettro di un incidente aleggia sempre nell’aria come ha dimostrato quello più recente di Krsko in Slovenia, subito rientrato. Se sommiamo gli anni di vita di tutti i reattori costruiti arriviamo a 24.000 anni di esperienza, rispondono gli ingegneri nucleari. E la generazione III +, che sarà disponibile nel 20122015, avrà un rischio teorico assolutamente irrisorio. Comunque mai pari a zero, come spiega Fortuna dell’Infn: «Da un punto di vista scientifico si può minimizzare il rischio, non eliminarlo. Questo vale per tutte le attività umane, compreso il solare. Il processo nucleare è tra i più studiati in assoluto, usiamo modelli di calcolo con margini di incertezza inferiori al 3%. Analisi dei rischi così rigorose gli impianti civili di tipo chimico e molte attività industriali se le sognano...».
SCORTE DI URANIO
La stima dell’Aiea è che la durata dei depositi attuali sia di circa 85 anni ma sicuramente ci sono giacimenti ancora da scoprire. Il problema non è la disponibilità ma i costi di ricerca e d’estrazione che saranno sempre maggiori. «Se però si arriverà veramente ai reattori di IV generazione autofertilizzanti, che producono più combustibile di quello che bruciano, la disponibilità di uranio con gli stock attuali passerà a 2.500 anni», sostengono i fautori del ritorno al nucleare. Se...
Corriere della Sera Magazine del 19 giugno 2008, pag. 47
di Sara Gandolfi
Per gli addetti ai lavori è «un paradiso incastonato tra il blu del mare e il verde dei boschi». Un paradiso nucleare. «Due reattori sono già in funzione, uno di ultima generazione è in costruzione e presto potrebbe arrivarne un quarto. Hanno un sito per i rifiuti a bassa e media attività, la piscina per lo stoccaggio temporaneo del combustibile esaurito e stanno studiando il deposito geologico profondo per i rifiuti ad alta attività. Una soluzione retrivable: le scorie sono stivate 500 metri sotto il suolo ma se tra 20 o 50 anni si troverà il modo per "bruciarle" i finlandesi potranno andare a riprenderle. E la popolazione è d’accordo». Marco Ricotti, docente di ingegneria nucleare al Politecnico di Milano, poche settimane fa ha partecipato al tour guidato organizzato dalla Regione Lombardia a Olkiluoto-3, primo impianto del "rinascimento nucleare", costruito su un isolotto lungo la costa meridionale del Paese scandinavo. "Paradisi" simili stanno lentamente (ri)sorgendo in vari angoli del globo. Un trend che, al di là dei presunti vantaggi economici o ambientali ancora da dimostrare appieno, troverebbe la sua più urgente ragion d’essere nella crisi dei prezzi dei combustibili fossili e nell’instabilità (se non ostilità) politica delle aree dove essi si trovano. In Asia, poi, la spinta al nucleare ha le dimensioni di un’ondata: 6 reattori in costruzione in Cina, 6 in India, 3 in Corea,1 in Giappone,1 in Pakistan secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). Un carro in corsa sul quale il governo Berlusconi vuoi far salire anche l’Italia, tra i primi Paesi a scegliere il nucleare civile - è del 1963 l’impianto di latina - finché il referendum dell’87 spense le centrali. «Per il 2013 creeremo le condizioni perché venga messa la prima pietra di un gruppo di centrali di nuova generazione», ha sostenuto il ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola. Ventun anni dopo, smaltita ma non del tutto la paura di una seconda Chernobyl, quali opzioni ha davanti a sé l’Italia, quali i possibili rischi?
EVOLUZIONE IN TRE TAPPE
«Quasi tutti i 439 reattori a uso civile funzionanti oggi nel mondo appartengono alla cosiddetta Il generazione, reattori sicuri che nulla hanno a che vedere con Chernobyl», chiarisce Stefano Monti, responsabile Enea perla definizione dei programmi di ricerca e sviluppo sulla fissione; «anche in seguito all’incidente del 1986, irripetibile perché avvenuto in un impianto obsoleto e privo di contenitore, c’è stata comunque una forte spinta a investire in reattori sempre più sicuri: la III generazione di cui si vedono oggi le prime realizzazioni». Come l’Epr della franco-tedesca Areva (Olkiluoto-3 sarà seguito da un impianto a Flamanville, Francia), l’Apl000 della nippo-americana Westinghouse-Toshiba o l’Abwr della Mitsubishi-General Electric.
Per stessa ammissione dei costruttori, Epr e i suoi fratelli sono un’evoluzione, non una rivoluzione, dei reattori precedenti: riducono i costi grazie alla maggiore flessibilità operativa e a un uso più efficiente del combustibile, sia esso uranio arricchito 235 o una miscela di ossidi di uranio e di plutonio (MOx) prodotta dagli impianti di riprocessamento (vedi più avanti). In più sono dotati di una serie di dispositivi di tipo passivo, che non richiedono cioè l’intervento di un operatore, destinati a mettere in sicurezza gli impianti anche in caso di eventi estremi. Progetti di nuova concezione cui partecipa anche l’Italia: Ansaldo produce i contenitori di sicurezza dell’Ap1000 mentre Enel ha una quota del 12,5% nel progetto di Flamanville (e manda tirocinanti in loco).
PROBLEMA RIFIUTI
Il nucleare non emette gas climalteranti (eccetto il vapore acqueo delle torri di raffreddamento, che comunque condensa in poco tempo) ma, che si tratti di II o III generazione, produce rifiuti radioattivi. Una volta esaurito il fissile presente nel combustibile, infatti, restano i sottoprodotti della reazione a catena: una gamma di isotopi con tempi di decadimento molto variabili, anche di centinaia di migliaia di anni. Nell’Unione europea a 25, dove il nucleare contribuisce per circa il 33% del fabbisogno complessivo di energia elettrica, ogni anno vengono prodotti circa 40.000 metri cubi di rifiuti radioattivi, dei quali 4.000 sono quelli ad alta attività e a lunga vita, categoria 3. Per il loro stoccaggio è necessario ricorrere a barriere naturali, come le formazioni geologiche in profondità. Li quantità totale di scorie potrebbe però ridursi notevolmente. sia tramite ritrattamento nucleare sia con i reattori autofertilizzanti veloci di IV generazione. Processi che richiederanno ingenti investimenti e che lanciano pesanti incognite sui futuri costi dell’elettricità "pulita" da nucleare.
RIPROCESSAMENTO
Per motivi di carattere tecnologico, il combustibile non può essere lasciato indefinitamente all’interno del reattore: a un certo punto bisogna scaricarlo sebbene lo sfruttamento sia incompleto. Nei cicli one through si prende il combustibile irraggiato sfruttato, contenente prodotti radioattivi, e lo si mette in un deposito geologico.
Nei cicli che prevedono il riprocessamento viene invece spedito in un impianto ad hoc: qui si separano chimicamente i radioisotopi dal resto Ilei prodotti di fissione e si crea una nuova miscela. In particolare, si utilizza il plutonio generato nel reattore e lo si mescola con nuovo uranio. Servirà per produrre energia: i nuovi reattori possono ospitare sia ossidi di uranio sia ossidi misti uranio-plutonio (A10x) che arrivano dall’impianto di riprocessamento. La Francia ha adottato questo schema da anni. Gli americani, dai tempi di Jimmy Carter, hanno preferito lo schema one through per evitare il rischio di proliferazione nucleare e di "bombe sporche". «Oggi si stanno però rendendo conto che i loro 104 reattori, nel lungo periodo, potrebbero intasare il deposito di Yucca Mountain, in Nevada (peraltro non attivo prima del 2017 e oggetto di forti contestazioni, ndr) e stanno riconsiderando l’ipotesi "riciclo"», spiegano all’Enea. Il fisico Frank von Hippel della Princeton University non concorda: il MOx, una volta irradiato, contiene ancora circa il 70% del plutonio di partenza e il problema dello stoccaggio, quindi, sarebbe solo rinviato.
QUARTA GENERAZIONE
Il vero salto tecnologico è verso i reattori di IV generazione, ancor più sicuri e capaci di produrre meno rifiuti, o addirittura di bruciare quelli prodotti dalle generazioni precedenti. «Allo studio ci sono reattori raffreddati a gas ad alta temperatura che potrebbero produrre idrogeno, facendo quindi entrare il nucleare anche nel settore dei trasporti», spiega Ricotti del Politecnico «ma la parte dei leone spetta ai reattori veloci. Essi prevedono l’utilizzo di neutroni veloci, molto più energetici rispetto a quelli termici dei reattori attuali e per questo in grado di mantenere più a lungo la reazione a catena, ossia la fissione dell’uranio o del plutonio che crea energia. Risultato: il combustibile è sfruttato meglio. Inoltre, questi reattori generano neutroni in eccesso permettendo di produrre più combustibile fissile (Pu239) di quello originariamente introdotto». La tecnologia dei reattori veloci non è nuova: è già stata sperimentata nel reattore francese Superphenix, frutto di una joint venture franco-tedesco-italiana e chiuso nel 1998. Insomma, non si parte dal nulla. Con qualche controindicazione. Il processo di separazione e riconfezionamento del nuovo combustibile prodotto è un costo aggiuntivo notevole e poi c’è la questione dei tempi. Ci vorranno anche più di 20-30 anni e il fatto che una tecnologia sia disponibile non vuol dire che il mercato sia pronto ad accettarla: l’industria ha fatto investimenti notevoli per sviluppare la III generazione, che avrà una durata prevista di 60 anni. Anche se la IV generazione fosse pronta alla vendita nel 2030 chi la comprerebbe? Prima bisogna ammortizzare i costi della III. All’Italia non conviene allora aspettare, come propone il Nobel Carlo Rubbia (vedi intervista a pag. 56)?
RITARDI
«I reattori di III generazione sono realtà oggi. Per il resto è necessario un salto tecnologico di molti anni. Rubbia ha riproposto il ciclo uranio-torio, bellissima cosa ma sia chiaro che oggi nessuno al mondo lo fa. Dopo magari aspettiamo la fusione, ben che vada se ne parla fra 50-60 anni... Se la nazione ha un problema di mix energetico nel medio termine, la decisione deve essere presa con le tecnologie mature e disponibili sul mercato», avverte Monti dell’Enea. «Deve essere però una scelta Paese, il nucleare ha una complessità tale che può essere riaperto solo se c’è una decisione bipartisan alla base». Nel caso, l’Italia dovrà ricostruire un intero sistema: «Abbiamo distrutto le competenze: paradossalmente la nostra maggiore preoccupazione non è comprare il reattore e metterlo sul sito ma avere un’organizzazione tecnico-scientifica che gli stia intorno, che sappia farlo funzionare. Non è come fare scarpe. E poi serve la certezza della programmazione, degli investimenti, del personale», denuncia Graziano Fortuna, dell’Istituto di fisica nucleare (Infn), che si occupa di ricerca di base: «Non si farà mai la IV generazione se non ci si allena con la III».
OPZIONE ITALIANA Il ministro Scajola ha citato il modello Epr... La scelta migliore? «Oggi il mercato dell’energia è libero e i conti vanno fatti secondo le leggi di quel mercato. Si dovrà fare una gara e vincerà l’azienda che offrirà le condizioni migliori», sostiene Monti dell’Enea: «L’obiettivo a medio termine è di coprire almeno il 15-20% del fabbisogno. Adesso la potenza impegnata in Italia è di 50-57 gigawatt, tra 10-20 anni potrebbero diventare 65. Una centrale Epr è di 1,6 gigawatt, quindi stiamo parlando di almeno 6 centrali ». I tempi? L’impianto finlandese richiederà 13-14 anni per entrare in funzione. Il governo della Gran Bretagna, Paese con lunga e ininterrotta tradizione nucleare, ha da parte sua annunciato la costruzione di 8 centrali nucleari di III generazione per il 2020. Può forse l’Italia fare meglio? «Mi attirerò le ire di Scajola, ma non avremo centrali entro 5 o 10 anni. Auspico, semmai, che fra trent’anni il mixing energetico in Italia sia 30% nucleare, 30 rinnovabile, 30 fossile, 10 altro», conclude Monti.
COSTI E BENEFICI
Per far ripartire il settore in Usa (ben 29 reattori potrebbero aggiungersi ai 104 esistenti) l’Amministrazione Bush ha offerto cospicui sussidi ai gestori privati, Costi e tempi di costruzione sono infatti molto maggiori di una centrale tradizionale, anche se il costo dell’energia prodotta sarebbe poi competitivo: obiettivo dell’Erp, per esempio, è portare 1 MWh di energia a 30 curo. Eppure un dossier di Wwf, Greenpeace e Legambiente contesta l’economicità della scelta nucleare: tra costi industriali e sussidi un MWh, oggi, raggiungerebbe 80 dollari. Quanto costa un reattore? Dipende dall’accordo fra le parti. Alla Finlandia l’Epr è stato venduto chiavi in mano per 3,2 miliardi di euro (i ritardi sono a carico di Areva). Ben più dura, sussurrano gli esperti, sarebbe stata la trattativa con i cinesi, che oltre all’impianto vogliono il know how: prendono i primi reattori, imparano tutto quello che c’è da imparare e quelli successivi se li costruiscono da soli... Hanno preteso il technology transfer sennò non compravano. Westinghouse ha accettato, Areva si era rifiutata ma poi ha ceduto: pare abbia venduto l’Epr a un prezzo inferiore di quello fatto ai finlandesi.
DEPOSITI DI SCORIE
«Invece di decadere in 1.000-3.000 anni, la radioattività sparirà in 200-300 anni ma il problema delle scorie non sparirà», avverte il professor Marco Ricotti. «D’altra parte, non esiste l’energia "pulita", che sia nucleare o no. L’energia di per sé ha un impatto sull’ambiente, anche quella rinnovabile utilizza materiali tossico-nocivi nei pannelli fotovoltaici». Se non riusciamo a gestire i rifiuti di Napoli, come possiamo affrontare le scorie radioattive? «Esistono soluzioni tecniche consolidate, si possono individuare anche in Italia siti sicuri dove stoccarle e in futuro si potrebbe pensare a un deposito geologico comunitario per quelli ad alta attività». La Russia ha già offerto la sua steppa in Siberia...
SICUREZZA
Il nucleare non emette CO2, perché non sfrutta il principio della combustione per la produzione di calore. I gruppi ambientalisti denunciano però i rischi di contaminazione in tutto il ciclo del nucleare, dall’estrazione dell’uranio allo smaltimento delle scorie, e lo spettro di un incidente aleggia sempre nell’aria come ha dimostrato quello più recente di Krsko in Slovenia, subito rientrato. Se sommiamo gli anni di vita di tutti i reattori costruiti arriviamo a 24.000 anni di esperienza, rispondono gli ingegneri nucleari. E la generazione III +, che sarà disponibile nel 20122015, avrà un rischio teorico assolutamente irrisorio. Comunque mai pari a zero, come spiega Fortuna dell’Infn: «Da un punto di vista scientifico si può minimizzare il rischio, non eliminarlo. Questo vale per tutte le attività umane, compreso il solare. Il processo nucleare è tra i più studiati in assoluto, usiamo modelli di calcolo con margini di incertezza inferiori al 3%. Analisi dei rischi così rigorose gli impianti civili di tipo chimico e molte attività industriali se le sognano...».
SCORTE DI URANIO
La stima dell’Aiea è che la durata dei depositi attuali sia di circa 85 anni ma sicuramente ci sono giacimenti ancora da scoprire. Il problema non è la disponibilità ma i costi di ricerca e d’estrazione che saranno sempre maggiori. «Se però si arriverà veramente ai reattori di IV generazione autofertilizzanti, che producono più combustibile di quello che bruciano, la disponibilità di uranio con gli stock attuali passerà a 2.500 anni», sostengono i fautori del ritorno al nucleare. Se...
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