lunedì 16 giugno 2008

Il vecchio problema del nucleare è sempre lì: le scorie

Il vecchio problema del nucleare è sempre lì: le scorie

L'Unità del 16 giugno 2008, pag. 23

di Pietro Greco

I rifiuti sono il grande problema del nucleare. E per la sua immagine.

Il mondo è pieno di scorie radioattive accumulate in oltre 60 anni di utilizzo dell’energia contenuta nel nucleo degli atomi a fini civili e, soprattutto, militari. E nessuno ha ancora in mano una ricetta per smaltirle una volta e per sempre. Gli Stati Uniti, per esempio, devono gestire circa 37 milioni di metri cubi di rifiuti nucleari e contano di risolvere il problema dello stoccaggio in un sito definitivo (in diversi siti, differenziati per tipologia di rifiuti) entro i prossimi 70 anni, dopo aver investito all’incirca 1.000 miliardi di dollari. In Russia il rovello ha dimensioni ancora più grandi. Perché, si calcola, i rifiuti da gestire sono molti di più (in un solo sito presso la cittadina di Seversk, Siberia, ve ne sono stoccati circa 40 milioni di metri cubi); perché di molti di questi rifiuti si sono perse le tracce e perché nessuno ha né i soldi né l’intenzione di spenderli per affrontare il problema. Certo, quelle di Stati Uniti e Russia sono tantissime perché sono «scorie di guerra fredda», come recita il titolo di un documentato libro uscito anni fa per la Ediesse con la firma di Ugo Farinelli. Frutto soprattutto di un incontrollato sfruttamento militare dell’energia nucleare.



Al contrario, in Italia il problema della gestione dei rifiuti radioattivi è piccola cosa. In totale le nostre scorie, tutte da usi civili, ammontano a 23.500 metri cubi: millecinquecento volte meno che negli Usa, tremila volte meno che in Russia. E anche se a questi sommiamo i circa 30.000 metri cubi che rientreranno dall’estero dopo un opportuno trattamento, nel loro insieme ammontano a quanto la Francia ne produce di nuove in un solo anno.



Ma nel nostro paese non ci sono fonti di produzione militari, esistono solo quattro centrali con attività sospesa da anni (in Francia ce ne sono oltre 50 attive) e le scorie ancora prodotte ogni anno sono quelle provenienti dagli ospedali e da altre fonti minori.



E tuttavia, pur essendo ben più piccolo che in altri paesi, il problema dei rifiuti nucleari in Italia (soprattutto in Italia) è un problema tuttora aperto. E non solo perché, da noi come altrove, i rifiuti nucleari non possono essere smaltiti: non esiste un modo economico e affidabile per azzerarne la radioattività. Occorre attendere che lo facciano in maniera naturale. Il che significa attendere alcune centinaia di anni per i rifiuti di cosiddetta II categoria, i maggiori in volume, e alcune migliaia o persino alcuni milioni di anni per rifiuti di III categoria, i maggiori per intensità radioattiva.



In altri termini, allo stato il problema dei rifiuti radioattivi non può essere risolto, può essere solo gestito in modo sicuro. Come? L’idea di molti è confezionare per bene i rifiuti, in modo da garantire l’assenza di ogni rilascio per centinaia e migliaia di anni, e poi collocarli in un «deposito unico nazionale», un «sito geologico» che qualcuno chiama persino «deposito definitivo», lì nel sottosuolo, in una cavità naturale secca e a basso rischio sismico. Facile a dirsi e difficile a farsi. Finora nessuno al mondo c’è riuscito.



In Italia ci avevamo pensato. Dopo che un’apposita commissione parlamentare - che prende il nome dal suo presidente, Massimo Scalia - aveva definito per bene il problema, è intervenuto, all’inizio del suo mandato, il secondo governo Berlusconi con un modello operativo che potremmo definire d’imperio: creare una società (la Sogin), affidarla a un generale, scegliere le migliori soluzioni tecniche e realizzarle.



In pochi mesi la Sogin ha assolto alla prima parte del compito. Con procedure che non hanno retto alla prova, ha indicato al governo il sito: il sottosuolo di Scanzano, in Basilicata. Ed era già pronta a mettere mano all’opera. Come sia andata a finire, tutti lo sanno. E non solo in Italia. A partire dal 2003 Scanzano è diventato in tutto il mondo il sinonimo di cosa non si deve fare - in un paese democratico, almeno - per gestire il problema dei rifiuti radioattivi e, più in generale, i problemi connessi al rischio ambientale.



Dopo Scanzano si è ricominciato, tenendo nel debito conto i vincoli e le indicazioni dell’Unione Europea. L’idea di Pier Luigi Bersani, il ministro che nel passato governo Prodi ha seguito il problema, è stata quella di sospendere la ricerca del definitivo «sito geologico» e di trovare una soluzione provvisoria, aggredendo il problema con l’approccio dell’«anche nel mio giardino»: ovvero, fatte salve le garanzie per tutti, concertare con le regioni l’individuazione di un sito. Un sito che si prospetta grande per ora quanto quattro campi di calcio, in grado di accogliere in sicurezza (al meglio delle tecnologie disponibili) circa 13.000 contenitori modulari, che non sia nel sottosuolo e non abbia le pretese dell’eternità, ma che sia superficiale e appunto provvisorio (anche se per provvisorio in questo caso si intende un tempo dell’ordine delle decine di anni).



Alcuni sostengono che sarebbe meglio pensare non a un deposito unico, ma a diversi depositi più piccoli. Sarebbe bene tenere in conto, tuttavia, la normativa europea e non dividersi su una questione (un sito unico, più siti) che va risolta in sede tecnica. Solo dopo che l’Italia avrà dimostrato di saper gestire le sue poche scorie, potrà porsi credibilmente il problema di sviluppare il nucleare. Certo, si può lavorare per ridurre al minimo il tempo dello stoccaggio provvisorio. Come? Lavorando su due piani paralleli. Da un lato verificare se è possibile concordare a livello internazionale l’individuazione di un «deposito definitivo» o di lungo periodo. Dall’altro studiare possibili tecniche che, in economia e soprattutto in sicurezza, riescano a smaltire (abbattendo in qualche modo la radioattività) e non si limitino a gestire i rifiuti nucleari. Molte sono le ipotesi da verificare. Resta il fatto però che, finché queste tecnologie non saranno messe a punto, l’opzione nucleare per la produzione di energia a fini civili resterà un’anatra dannatamente zoppa.



Prima di annunciare che in cinque anni sarà messa la prima pietra del nuovo nucleare che farà ripartire la produzione di nuove scorie, sarebbe bene, dunque, che il nuovo governo Berlusconi dichiarasse di quanto tempo ha bisogno per dimostrare che l’Italia sa gestire almeno la piccola quantità delle sue antiche scorie.

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