Il nucleare e gli eccessi di entusiasmo
La Stampa del 4 giugno 2008, pag. 28
di Mario Tozzi
Confessiamo di non essere a conoscenza dell’energia nucleare «di nuova generazione» di cui si parla in questi giorni: della «Generazione IV» si parla da tempo, ma, se tutto va bene, nascerà fra 15-20 anni e così pure se si parla dei reattori a neutroni veloci di nuova concezione. Perciò dobbiamo pensare che ci si riferisca in realtà all’attuale generazione di reattori, che tutto è tranne che nuova, visto che nasce nel 1942. Ma non è il solo dubbio che ci sentiamo di coltivare. Per esempio ci piacerebbe sapere che senso ha - in un periodo in cui l’emergenza energetica si aggrava semestralmente - immaginare un contributo nucleare che sarebbe attivo solo fra 8-10 anni (perché questo significa «porre la prima pietra fra 5 anni»). Se volessimo poi fare qualcosa per migliorare la qualità dell’aria e diminuire i gas clima alteranti, l’energia nucleare non sarebbe né la via più breve né la più efficace, pur non emettendo anidride carbonica. Per quest’ultima il vantaggio che si otterrebbe dall’efficienza e dal risparmio energetico è sempre superiore di quello ottenuto dalla produzione di elettricità per via nucleare. E costruire nuovi impianti costa sempre di più che investire in efficienza. Oltretutto si tratta di una fonte destinata ad esaurirsi come gli idrocarburi.
Ci piacerebbe anche sapere cosa significa che l’energia così prodotta sarebbe a buon mercato, quando l’installazione di una centrale nucleare è forse l’operazione industriale più costosa e più lunga che si rammenti, anche perché deve comprendere fin dall’inizio il decommissioning (lo smantellamento) che costa più o meno il doppio della costruzione. Facciamo un esempio concreto: la centrale di Maine Yankee (negli Usa) sarà smantellata alla cifra di 635 milioni di dollari, quando ce ne sono voluti 230 (trent’anni fa) per costruirla. Oggi la centrale finlandese di Olkiluoto costa 3 miliardi di euro, dai 2 inizialmente previsti, quattro volte una centrale a gas a ciclo combinato di pari potenza. Solo per decontaminare i siti italiani si spenderanno quasi 3 miliardi di euro, se ce la si farà, entro il 2020. Del resto, se il nucleare fosse davvero conveniente il mercato l’avrebbe premiato, e - invece - al mondo copre solo il 6,5% dell’intero fabbisogno di energia primaria ed è stato utilizzato solamente dove le economie potevano permettersi l’investimento (Stati Uniti e Giappone posseggono, da soli, quasi la metà dei reattori oggi in funzione) o dove era forte la mano statale (Francia e Paesi dell’ex-blocco sovietico).
Si ipotizza poi una convenienza per chilowattora dell’energia prodotta per questa via, ma anche su questo è lecito coltivare dubbi. Il kW nucleare sarebbe compreso fra i 3 e i 4 centesimi di euro, mentre, per esempio, quello da carbone costa 5 e da gas 6,5 (fino al 2006 i costi erano mediamente gli stessi). Ma qui non vengono considerati i costi sociali e ambientali occulti (le esternalità, esistenti anche per le altre fonti non rinnovabili) che qualcuno prima o poi dovrà mettere in conto, e che non sono a tutt’oggi noti per il semplice fatto che la verifica del costo effettivo potrà avvenire solo quando le scorie e le mura della prima centrale saranno ormai inoffensive, cioè, a occhio e croce, fra qualche decina di migliaia di anni. Dunque nessuno può sapere quanto costa in realtà l’energia nucleare, perché il ciclo non si chiude praticamente mai. E infine l’ultimo problema: non esiste ancora al mondo nemmeno un sito definitivo di stoccaggio delle scorie radioattive. Né il sito statunitense di Yucca Mountain né quello finlandese di Olkiluoto sono ancora considerati definitivi, perciò come si fa a costruire nuove centrali se non sappiamo ancora dove mettere il residuo delle vecchie? Farebbe piacere conoscere i siti indicati per le nuove centrali italiane, in maniera da poter preavvisare sindaci e cittadinanza. Un’ultima richiesta: ci si indichi in che lingua si dovrà scrivere sui bidoni di materiale radioattivo «attenti, pericolo radiazioni!», visto che i linguaggi umani cambiano ogni 5000 anni e le scorie superano agevolmente i 20.000.
La Stampa del 4 giugno 2008, pag. 28
di Mario Tozzi
Confessiamo di non essere a conoscenza dell’energia nucleare «di nuova generazione» di cui si parla in questi giorni: della «Generazione IV» si parla da tempo, ma, se tutto va bene, nascerà fra 15-20 anni e così pure se si parla dei reattori a neutroni veloci di nuova concezione. Perciò dobbiamo pensare che ci si riferisca in realtà all’attuale generazione di reattori, che tutto è tranne che nuova, visto che nasce nel 1942. Ma non è il solo dubbio che ci sentiamo di coltivare. Per esempio ci piacerebbe sapere che senso ha - in un periodo in cui l’emergenza energetica si aggrava semestralmente - immaginare un contributo nucleare che sarebbe attivo solo fra 8-10 anni (perché questo significa «porre la prima pietra fra 5 anni»). Se volessimo poi fare qualcosa per migliorare la qualità dell’aria e diminuire i gas clima alteranti, l’energia nucleare non sarebbe né la via più breve né la più efficace, pur non emettendo anidride carbonica. Per quest’ultima il vantaggio che si otterrebbe dall’efficienza e dal risparmio energetico è sempre superiore di quello ottenuto dalla produzione di elettricità per via nucleare. E costruire nuovi impianti costa sempre di più che investire in efficienza. Oltretutto si tratta di una fonte destinata ad esaurirsi come gli idrocarburi.
Ci piacerebbe anche sapere cosa significa che l’energia così prodotta sarebbe a buon mercato, quando l’installazione di una centrale nucleare è forse l’operazione industriale più costosa e più lunga che si rammenti, anche perché deve comprendere fin dall’inizio il decommissioning (lo smantellamento) che costa più o meno il doppio della costruzione. Facciamo un esempio concreto: la centrale di Maine Yankee (negli Usa) sarà smantellata alla cifra di 635 milioni di dollari, quando ce ne sono voluti 230 (trent’anni fa) per costruirla. Oggi la centrale finlandese di Olkiluoto costa 3 miliardi di euro, dai 2 inizialmente previsti, quattro volte una centrale a gas a ciclo combinato di pari potenza. Solo per decontaminare i siti italiani si spenderanno quasi 3 miliardi di euro, se ce la si farà, entro il 2020. Del resto, se il nucleare fosse davvero conveniente il mercato l’avrebbe premiato, e - invece - al mondo copre solo il 6,5% dell’intero fabbisogno di energia primaria ed è stato utilizzato solamente dove le economie potevano permettersi l’investimento (Stati Uniti e Giappone posseggono, da soli, quasi la metà dei reattori oggi in funzione) o dove era forte la mano statale (Francia e Paesi dell’ex-blocco sovietico).
Si ipotizza poi una convenienza per chilowattora dell’energia prodotta per questa via, ma anche su questo è lecito coltivare dubbi. Il kW nucleare sarebbe compreso fra i 3 e i 4 centesimi di euro, mentre, per esempio, quello da carbone costa 5 e da gas 6,5 (fino al 2006 i costi erano mediamente gli stessi). Ma qui non vengono considerati i costi sociali e ambientali occulti (le esternalità, esistenti anche per le altre fonti non rinnovabili) che qualcuno prima o poi dovrà mettere in conto, e che non sono a tutt’oggi noti per il semplice fatto che la verifica del costo effettivo potrà avvenire solo quando le scorie e le mura della prima centrale saranno ormai inoffensive, cioè, a occhio e croce, fra qualche decina di migliaia di anni. Dunque nessuno può sapere quanto costa in realtà l’energia nucleare, perché il ciclo non si chiude praticamente mai. E infine l’ultimo problema: non esiste ancora al mondo nemmeno un sito definitivo di stoccaggio delle scorie radioattive. Né il sito statunitense di Yucca Mountain né quello finlandese di Olkiluoto sono ancora considerati definitivi, perciò come si fa a costruire nuove centrali se non sappiamo ancora dove mettere il residuo delle vecchie? Farebbe piacere conoscere i siti indicati per le nuove centrali italiane, in maniera da poter preavvisare sindaci e cittadinanza. Un’ultima richiesta: ci si indichi in che lingua si dovrà scrivere sui bidoni di materiale radioattivo «attenti, pericolo radiazioni!», visto che i linguaggi umani cambiano ogni 5000 anni e le scorie superano agevolmente i 20.000.
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