Il nucleare dell'Enel e il vento della Puglia
di Nicola Cipolla
Liberazione del 25/05/2006
Mentre l’Italia era ancora impegnata in un lungo e faticoso iter elettorale/costituzionale, Flavio Conti, che ha sostituito da poco più di un anno Scaroni alla direzione dell’Enel, ha pensato bene di concludere, nel mese di aprile, gli accordi con la Slovacchia e con l’Edf francese che riportano l’ex ente monopolista di stato, ma tuttora a maggioranza pubblica, negli affari nucleari d’Europa.
Questa mossa è grave e pericolosa per diversi ordini di motivi. In primo luogo perché correttezza gestionale avrebbe consigliato un amministratore nominato dal precedente governo ad attendere il placet del nuovo esecutivo.
In secondo luogo la firma è avvenuta nel momento in cui tutta l’umanità, e in particolare l’Europa, commemoravano l’anniversario del terribile disastro di Chernobyl, avvenuto in un impianto che adopera la stessa tecnologia di quelli esistenti in Slovacchia.
In terzo luogo perché, proprio in seguito a Chernobyl, il fronte ambientalista italiano (con l’appoggio della sinistra del Pci) aveva ottenuto la vittoria del referendum popolare (la richiesta di referendum era stata presentata ben prima dell’incidente) che metteva fuorilegge l’energia atomica e bloccava così l’affannoso tentativo dell’Enel di Viezzoli (che poi finì in galera per questo) di arrivare, comunque, alla costruzione della centrale di Montalto di Castro.
Ma tutto questo per un Ceo (Chef Executive Officer) come Flavio Conti, che un giorno sì e un giorno no afferma che il suo scopo principale è quello di creare “valore” cioè profitti per l’Enel, poteva non avere nessun significato.
Ma anche dal punto di vista economico la scelta nucleare, in linea generale e nella fattispecie per i due affari slovacco e francese, apre prospettive disastrose. “Il mercato energetico fatto di sola concorrenza è un nemico spietato della tecnologia nucleare”. Oggi come oggi il Kw/ora più economico è quello delle centrali a metano a ciclo combinato, seguito dall’eolico, dal carbone, dal nucleare e in ultimo dai derivati del petrolio.
Queste affermazioni sono ricorrenti in tutta la stampa economica e tecnica. Negli Stati Uniti, a partire dall’incidente di Three Miles Island precedente a quello di Chernobyl, da oltre venti anni non si costruiscono più centrali atomiche per l’introduzione di norme restrittive che riguardano la sicurezza. Ma anche prima di questo incidente la produzione di energia elettrica atomica era fortemente sovvenzionata, di fatto, dalla spesa per l’uso militare dell’atomo che poneva a carico della collettività sia gli investimenti per la ricerca sia gran parte del costo del ritrattamento dell’uranio utilizzato nelle centrali elettriche. Paesi come la Germania e la Svezia stanno uscendo dal nucleare man mano che le centrali, costruite prima degli incidenti, si chiudono e si contano sulle dita di una mano le iniziative di completamento di impianti in costruzione; tra questi l’impianto di Mochovce che l’Enel ha fatto proprio con l’acquisto del 66% delle azioni della Slovenske Elektrarne privatizzata.
Per il controllo di questa società (che ha 900 milioni di euro di debito verso le banche) l’Enel ha già sborsato 840 milioni di euro e si è impegnata ad un investimento di un miliardo di euro per il completamento di due reattori ancora in costruzione. Ma nel processo di privatizzazione slovacco l’Enel arriva dopo che l’Edf francese e la Rowe tedesca hanno acquisito il controllo della rete di distribuzione slovacca, e potranno anche non acquistare o imporre prezzi bassi per l’energia che l’Enel produrrà con gli impianti slovacchi.
Né meno incerto, dal punto di vista economico, è l’investimento francese dove l’Enel si è impegnato ad apportare il 12,50% della spesa (circa tre miliardi di euro) anche qui in cambio del 12,50% dell’energia prodotta da vendere, tra parecchi anni, a chi avrà il dominio delle reti di distribuzione senza le quali l’energia prodotta non avrà praticamente valore. Ma a questo riguardo il governo francese ha già provveduto ad impedire che l’Enel potesse entrare nel settore della distribuzione in Francia (come il governo spagnolo per la sua industria) mentre l’Edf in Italia, in accordo con la ex municipalizzata lombarda Aem, ha acquisito il controllo dell’Edison cioè del più ricco mercato italiano di consumo dell’energia elettrica che è quello padano. Un bilancio sconsolante.
Da dove prende i soldi l’Enel da investire all’estero in avventure così spericolate? Li prende dalle tasche dei consumatori e dalle imprese italiane che pagano l’energia elettrica il 25% in più rispetto agli altri paesi europei, malgrado che nel bilancio elettrico italiano influisca, per il 18%, la produzione idroelettrica derivante da impianti già totalmente ammortizzati e prodotta da una materia prima, l’acqua, che viene dal cielo e che non è sottoposta agli sbalzi delle quotazioni del petrolio. Non sarebbe meglio che l’Enel, invece di accumulare utili, sviluppasse una politica di concorrenza sul prezzo dell’energia con le multinazionali, francesi e spagnole in particolare, che vengono in Italia solo per sfruttare, da oligopolisti, gli alti prezzi che l’ex monopolio pubblico impone ai consumatori italiani?
Recentemente sia la Commissione parlamentare sulle attività produttive, presieduta dall’Udc Tabacci, con una relazione approvata quasi all’unanimità sia con l’intervento della Commissione dell’Unione europea è stato sottolineato il carattere monopolistico della gestione delle reti energetiche in Italia: per il gas con la Snam Retegas e per l’Enel con la società Terna che, vedi caso, era presieduta dal dottor Flavio Conti prima della sua ascesa alla massima direzione dell’Enel a cura del governo Berlusconi.
Uno dei compiti del governo, e del Parlamento uscito dal voto del 9 e 10 aprile, sarà quello di riprendere questo discorso. Anche perché l’Enel oltre al nucleare avanza la proposta della trasformazione a carbone di alcune centrali. Queste centrali sono non solo meno redditizie delle centrali a turbo gas, tanto è vero che nessun imprenditore privato ha avanzato proposte di centrali a carbone, ma sono fortemente inquinanti e vanno contro gli accordi di Kyoto perché responsabili di maggiori emissioni rispetto al gas e soprattutto alle fonti rinnovabili che trovano, invece, spinte favorevoli da parte delle popolazioni.
Queste fonti nei programmi di Flavio Conti hanno solo un ruolo marginale perché sottraggono quote di mercato alle centrali tradizionali dell’Enel (e degli altri grandi produttori) e perché richiedono una ristrutturazione della rete di distribuzione finora basata esclusivamente sull’apporto di grandi centrali, concentrate in alcuni siti del paese, mentre con l’avvento delle rinnovabili entrano in gioco centinaia o migliaia e decine di migliaia di piccoli produttori che, anche in base alle direttive comunitarie ed agli accordi di Kyoto, hanno diritto a immettere in rete la loro produzione.
La scelta atomica e del carbone e il bavaglio alle energie alternative, in particolare a quella eolica, faceva parte del programma del governo Berlusconi, ma non fa parte del programma approvato dall’Unione che vorrebbe fare recuperare all’Italia un ritardo nelle energie rinnovabili rispetto agli altri paesi europei.
Nel 2005 l’Europa ha raggiunto con 40.500 Mw eolici installati (una produzione annua di 24 milioni di tep) il primato in tutto il mondo e va sottolineato che questi valori hanno consentito di superare con cinque anni di anticipo l’obiettivo di 40.000 Mw fissato nel libro bianco dell’Ue per il 2010.
In testa alla classifica ci sono la Germania con 18.428 Mw e la Spagna che ha superato il 10.000 Mw e stanno entrando in questa produzione paesi come il Portogallo che ha superato i 1.000 Mw, l’Olanda, la Gran Bretagna e naturalmente la Danimarca che aveva la più alta percentuale di produzione eolica dell’Europa.
Nel 2005 l’Italia ha avuto quasi una battuta d’arresto dovuta, non tanto, io ritengo, alle forze ambientaliste che protestavano contro casi isolati di impianti in zone paesaggisticamente rilevanti, quanto alla netta opposizione, come ad esempio è avvenuto in Sicilia, da parte dell’Enel e della sua filiale Terna che hanno espressamente sollecitato il governo Cuffaro a imporre limiti non paesaggistici ma quantitativi rifiutandosi di immettere nella rete l’energia eolica che una serie di imprese volevano produrre in Sicilia per 5.000 Mw.
Uno dei primi compiti del governo dell’Unione dovrebbe essere quello di rielaborare finalmente un piano energetico nazionale rispettoso delle indicazioni dell’Ue e di Kyoto. In questo senso si muove, nell’elaborazione del suo Piano Energetico Regionale, la Regione Puglia che ha raccolto suggestioni ed esperienze che vengono dalle altre regioni di centro-sinistra d’Italia e dalle esperienze più avanzate dell’Europa.
La lettura dei documenti pubblicati nel sito della Regione Puglia dà un’indicazione del grande lavoro in corso, degli orientamenti generali e, a mio avviso, soprattutto della partecipazione richiesta e organizzata da parte di istituzioni come Comuni, Province, associazioni culturali e ambientaliste, sindacati, associazioni di produttori industriali ed agricoli (circa 1.200). Da questi documenti e dalle notizie di stampa emergono orientamenti che si possono così riassumere:
- è una regione caratterizzata da un lato dalla presenza massiccia di mostri industriali ad altissimo tasso di inquinamento e produce quasi il doppio di energia elettrica consumata (la sola centrale a carbone di Cerano, vicino Brindisi, produce il 6% di tutte le emissioni ammesse in Italia da oltre 1.600 imprese responsabili di inquinamento da anidride carbonica e il 12% di quelle elettriche) e dall’altro è una delle regioni più indiziate per la produzione di energia eolica, solare e biomasse in collegamento con la riduzione di colture agricole tradizionali non più garantite dai contributi comunitari. La scelta quindi di fondo è quella di una drastica riduzione dell’uso del carbone e del petrolio e dello sviluppo delle energie alternative e in particolare dell’eolico (già oggi la Puglia è al primo posto i Italia per potenza eolica installata, per domande accolte e per domande in corso di espletamento per circa 3.000 Mw).
- sviluppo non più affidato soltanto a imprenditori che scelgono di concentrare gli impianti eolici in siti paesaggisticamente rilevanti, ma diffuso nel territorio con nuovi protagonisti come le imprese municipalizzate e i produttori agricoli come avviene in Germania. Naturalmente ciò presuppone un completo rinnovamento della rete e soprattutto dei metodi di gestione della stessa con l’affermazione del principio che ogni produttore di energia ha il diritto di immettere nella rete, bene comune, la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili.
Questo complesso processo democratico di consultazione dovrebbe portare nel prossimo mese di giugno all’approvazione del Piano che può costituire un esempio e un punto di riferimento per il movimento in tutta Italia. Un solo esempio: la lotta popolare di Civitavecchia contro la centrale elettrica a carbone viene rafforzata dalla decisione del Piano energetico pugliese di ridurre fino ad annullare, come richiesto da molti interventi di Enti locali tra cui il Comune di Brindisi (di centro destra) e le associazioni ambientaliste per la trasformazione della centrale di Cerano da metano a ciclo combinato.
La situazione della Puglia non è diversa da quella di altre regioni meridionali che sono tutte interessate alla riduzione dell’inquinamento dei grandi impianti petrolchimici ed energetici che furono sostenuti dalla Cassa del Mezzogiorno e, per converso, dalla utilizzazione massiccia delle energie alternative che nel Mezzogiorno più che nella Valle Padana rappresentano una fonte preziosa e pulita.
Il governo Prodi deve però fare una scelta tra la politica dell’Enel che è stata sostenuta dal governo Berlusconi e che è in contrasto, ripetiamo, con gli orientamenti di Kyoto e dell’Ue, e una nuova politica energetica che può costituire in primo luogo per il Mezzogiorno non solo una grande risorsa dal punto di vista ambientale ma anche per quanto riguarda lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione, e il trasferimento attraverso il meccanismo dei Certificati Verdi di miliardi di euro dalle industrie inquinanti ai Comuni ed ai piccoli produttori di energia.
di Nicola Cipolla
Liberazione del 25/05/2006
Mentre l’Italia era ancora impegnata in un lungo e faticoso iter elettorale/costituzionale, Flavio Conti, che ha sostituito da poco più di un anno Scaroni alla direzione dell’Enel, ha pensato bene di concludere, nel mese di aprile, gli accordi con la Slovacchia e con l’Edf francese che riportano l’ex ente monopolista di stato, ma tuttora a maggioranza pubblica, negli affari nucleari d’Europa.
Questa mossa è grave e pericolosa per diversi ordini di motivi. In primo luogo perché correttezza gestionale avrebbe consigliato un amministratore nominato dal precedente governo ad attendere il placet del nuovo esecutivo.
In secondo luogo la firma è avvenuta nel momento in cui tutta l’umanità, e in particolare l’Europa, commemoravano l’anniversario del terribile disastro di Chernobyl, avvenuto in un impianto che adopera la stessa tecnologia di quelli esistenti in Slovacchia.
In terzo luogo perché, proprio in seguito a Chernobyl, il fronte ambientalista italiano (con l’appoggio della sinistra del Pci) aveva ottenuto la vittoria del referendum popolare (la richiesta di referendum era stata presentata ben prima dell’incidente) che metteva fuorilegge l’energia atomica e bloccava così l’affannoso tentativo dell’Enel di Viezzoli (che poi finì in galera per questo) di arrivare, comunque, alla costruzione della centrale di Montalto di Castro.
Ma tutto questo per un Ceo (Chef Executive Officer) come Flavio Conti, che un giorno sì e un giorno no afferma che il suo scopo principale è quello di creare “valore” cioè profitti per l’Enel, poteva non avere nessun significato.
Ma anche dal punto di vista economico la scelta nucleare, in linea generale e nella fattispecie per i due affari slovacco e francese, apre prospettive disastrose. “Il mercato energetico fatto di sola concorrenza è un nemico spietato della tecnologia nucleare”. Oggi come oggi il Kw/ora più economico è quello delle centrali a metano a ciclo combinato, seguito dall’eolico, dal carbone, dal nucleare e in ultimo dai derivati del petrolio.
Queste affermazioni sono ricorrenti in tutta la stampa economica e tecnica. Negli Stati Uniti, a partire dall’incidente di Three Miles Island precedente a quello di Chernobyl, da oltre venti anni non si costruiscono più centrali atomiche per l’introduzione di norme restrittive che riguardano la sicurezza. Ma anche prima di questo incidente la produzione di energia elettrica atomica era fortemente sovvenzionata, di fatto, dalla spesa per l’uso militare dell’atomo che poneva a carico della collettività sia gli investimenti per la ricerca sia gran parte del costo del ritrattamento dell’uranio utilizzato nelle centrali elettriche. Paesi come la Germania e la Svezia stanno uscendo dal nucleare man mano che le centrali, costruite prima degli incidenti, si chiudono e si contano sulle dita di una mano le iniziative di completamento di impianti in costruzione; tra questi l’impianto di Mochovce che l’Enel ha fatto proprio con l’acquisto del 66% delle azioni della Slovenske Elektrarne privatizzata.
Per il controllo di questa società (che ha 900 milioni di euro di debito verso le banche) l’Enel ha già sborsato 840 milioni di euro e si è impegnata ad un investimento di un miliardo di euro per il completamento di due reattori ancora in costruzione. Ma nel processo di privatizzazione slovacco l’Enel arriva dopo che l’Edf francese e la Rowe tedesca hanno acquisito il controllo della rete di distribuzione slovacca, e potranno anche non acquistare o imporre prezzi bassi per l’energia che l’Enel produrrà con gli impianti slovacchi.
Né meno incerto, dal punto di vista economico, è l’investimento francese dove l’Enel si è impegnato ad apportare il 12,50% della spesa (circa tre miliardi di euro) anche qui in cambio del 12,50% dell’energia prodotta da vendere, tra parecchi anni, a chi avrà il dominio delle reti di distribuzione senza le quali l’energia prodotta non avrà praticamente valore. Ma a questo riguardo il governo francese ha già provveduto ad impedire che l’Enel potesse entrare nel settore della distribuzione in Francia (come il governo spagnolo per la sua industria) mentre l’Edf in Italia, in accordo con la ex municipalizzata lombarda Aem, ha acquisito il controllo dell’Edison cioè del più ricco mercato italiano di consumo dell’energia elettrica che è quello padano. Un bilancio sconsolante.
Da dove prende i soldi l’Enel da investire all’estero in avventure così spericolate? Li prende dalle tasche dei consumatori e dalle imprese italiane che pagano l’energia elettrica il 25% in più rispetto agli altri paesi europei, malgrado che nel bilancio elettrico italiano influisca, per il 18%, la produzione idroelettrica derivante da impianti già totalmente ammortizzati e prodotta da una materia prima, l’acqua, che viene dal cielo e che non è sottoposta agli sbalzi delle quotazioni del petrolio. Non sarebbe meglio che l’Enel, invece di accumulare utili, sviluppasse una politica di concorrenza sul prezzo dell’energia con le multinazionali, francesi e spagnole in particolare, che vengono in Italia solo per sfruttare, da oligopolisti, gli alti prezzi che l’ex monopolio pubblico impone ai consumatori italiani?
Recentemente sia la Commissione parlamentare sulle attività produttive, presieduta dall’Udc Tabacci, con una relazione approvata quasi all’unanimità sia con l’intervento della Commissione dell’Unione europea è stato sottolineato il carattere monopolistico della gestione delle reti energetiche in Italia: per il gas con la Snam Retegas e per l’Enel con la società Terna che, vedi caso, era presieduta dal dottor Flavio Conti prima della sua ascesa alla massima direzione dell’Enel a cura del governo Berlusconi.
Uno dei compiti del governo, e del Parlamento uscito dal voto del 9 e 10 aprile, sarà quello di riprendere questo discorso. Anche perché l’Enel oltre al nucleare avanza la proposta della trasformazione a carbone di alcune centrali. Queste centrali sono non solo meno redditizie delle centrali a turbo gas, tanto è vero che nessun imprenditore privato ha avanzato proposte di centrali a carbone, ma sono fortemente inquinanti e vanno contro gli accordi di Kyoto perché responsabili di maggiori emissioni rispetto al gas e soprattutto alle fonti rinnovabili che trovano, invece, spinte favorevoli da parte delle popolazioni.
Queste fonti nei programmi di Flavio Conti hanno solo un ruolo marginale perché sottraggono quote di mercato alle centrali tradizionali dell’Enel (e degli altri grandi produttori) e perché richiedono una ristrutturazione della rete di distribuzione finora basata esclusivamente sull’apporto di grandi centrali, concentrate in alcuni siti del paese, mentre con l’avvento delle rinnovabili entrano in gioco centinaia o migliaia e decine di migliaia di piccoli produttori che, anche in base alle direttive comunitarie ed agli accordi di Kyoto, hanno diritto a immettere in rete la loro produzione.
La scelta atomica e del carbone e il bavaglio alle energie alternative, in particolare a quella eolica, faceva parte del programma del governo Berlusconi, ma non fa parte del programma approvato dall’Unione che vorrebbe fare recuperare all’Italia un ritardo nelle energie rinnovabili rispetto agli altri paesi europei.
Nel 2005 l’Europa ha raggiunto con 40.500 Mw eolici installati (una produzione annua di 24 milioni di tep) il primato in tutto il mondo e va sottolineato che questi valori hanno consentito di superare con cinque anni di anticipo l’obiettivo di 40.000 Mw fissato nel libro bianco dell’Ue per il 2010.
In testa alla classifica ci sono la Germania con 18.428 Mw e la Spagna che ha superato il 10.000 Mw e stanno entrando in questa produzione paesi come il Portogallo che ha superato i 1.000 Mw, l’Olanda, la Gran Bretagna e naturalmente la Danimarca che aveva la più alta percentuale di produzione eolica dell’Europa.
Nel 2005 l’Italia ha avuto quasi una battuta d’arresto dovuta, non tanto, io ritengo, alle forze ambientaliste che protestavano contro casi isolati di impianti in zone paesaggisticamente rilevanti, quanto alla netta opposizione, come ad esempio è avvenuto in Sicilia, da parte dell’Enel e della sua filiale Terna che hanno espressamente sollecitato il governo Cuffaro a imporre limiti non paesaggistici ma quantitativi rifiutandosi di immettere nella rete l’energia eolica che una serie di imprese volevano produrre in Sicilia per 5.000 Mw.
Uno dei primi compiti del governo dell’Unione dovrebbe essere quello di rielaborare finalmente un piano energetico nazionale rispettoso delle indicazioni dell’Ue e di Kyoto. In questo senso si muove, nell’elaborazione del suo Piano Energetico Regionale, la Regione Puglia che ha raccolto suggestioni ed esperienze che vengono dalle altre regioni di centro-sinistra d’Italia e dalle esperienze più avanzate dell’Europa.
La lettura dei documenti pubblicati nel sito della Regione Puglia dà un’indicazione del grande lavoro in corso, degli orientamenti generali e, a mio avviso, soprattutto della partecipazione richiesta e organizzata da parte di istituzioni come Comuni, Province, associazioni culturali e ambientaliste, sindacati, associazioni di produttori industriali ed agricoli (circa 1.200). Da questi documenti e dalle notizie di stampa emergono orientamenti che si possono così riassumere:
- è una regione caratterizzata da un lato dalla presenza massiccia di mostri industriali ad altissimo tasso di inquinamento e produce quasi il doppio di energia elettrica consumata (la sola centrale a carbone di Cerano, vicino Brindisi, produce il 6% di tutte le emissioni ammesse in Italia da oltre 1.600 imprese responsabili di inquinamento da anidride carbonica e il 12% di quelle elettriche) e dall’altro è una delle regioni più indiziate per la produzione di energia eolica, solare e biomasse in collegamento con la riduzione di colture agricole tradizionali non più garantite dai contributi comunitari. La scelta quindi di fondo è quella di una drastica riduzione dell’uso del carbone e del petrolio e dello sviluppo delle energie alternative e in particolare dell’eolico (già oggi la Puglia è al primo posto i Italia per potenza eolica installata, per domande accolte e per domande in corso di espletamento per circa 3.000 Mw).
- sviluppo non più affidato soltanto a imprenditori che scelgono di concentrare gli impianti eolici in siti paesaggisticamente rilevanti, ma diffuso nel territorio con nuovi protagonisti come le imprese municipalizzate e i produttori agricoli come avviene in Germania. Naturalmente ciò presuppone un completo rinnovamento della rete e soprattutto dei metodi di gestione della stessa con l’affermazione del principio che ogni produttore di energia ha il diritto di immettere nella rete, bene comune, la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili.
Questo complesso processo democratico di consultazione dovrebbe portare nel prossimo mese di giugno all’approvazione del Piano che può costituire un esempio e un punto di riferimento per il movimento in tutta Italia. Un solo esempio: la lotta popolare di Civitavecchia contro la centrale elettrica a carbone viene rafforzata dalla decisione del Piano energetico pugliese di ridurre fino ad annullare, come richiesto da molti interventi di Enti locali tra cui il Comune di Brindisi (di centro destra) e le associazioni ambientaliste per la trasformazione della centrale di Cerano da metano a ciclo combinato.
La situazione della Puglia non è diversa da quella di altre regioni meridionali che sono tutte interessate alla riduzione dell’inquinamento dei grandi impianti petrolchimici ed energetici che furono sostenuti dalla Cassa del Mezzogiorno e, per converso, dalla utilizzazione massiccia delle energie alternative che nel Mezzogiorno più che nella Valle Padana rappresentano una fonte preziosa e pulita.
Il governo Prodi deve però fare una scelta tra la politica dell’Enel che è stata sostenuta dal governo Berlusconi e che è in contrasto, ripetiamo, con gli orientamenti di Kyoto e dell’Ue, e una nuova politica energetica che può costituire in primo luogo per il Mezzogiorno non solo una grande risorsa dal punto di vista ambientale ma anche per quanto riguarda lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione, e il trasferimento attraverso il meccanismo dei Certificati Verdi di miliardi di euro dalle industrie inquinanti ai Comuni ed ai piccoli produttori di energia.
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