La falsa illusione dell'energia nucleare
di Sabina Morandi
Liberazione del 08/11/2007
Il ritorno all'atomo una follia economica e ambientale. Le alternative ci sono e i benefici sarebbero immediati
«E' molto più facile promettere invenzioni fantascientifiche piuttosto che infastidire le lobby industriali imponendo loro degli standard di efficienza energetica più elevati». A scrivere questa lapalissiana verità sulle pagine del Financial Times non è il capo di Greenpeace ma Franck Vervastro, esperto energetico del Center for Strategic and International Studies. State sicuri quindi che, vista la composizione del World Energy Council che terrà la prossima settimana a Roma il suo 20° congresso, di invenzioni miracolose ne verranno annunciate parecchie. A dirigere l'orchestra, del resto, c'è Chicco Testa, ambientalista storico decisamente pentito dei suoi trascorsi anti-nucleari: dalla presidenza di Legambiente - che Testa guidava proprio negli anni in cui si tenne il referendum - è approdato al consiglio d'amministrazione dell'Enel e, fino al 2005, all'European Advisory Board del Carlyle Group, il mega-fondo di investimento della famiglia Bush. Oggi Chicco Testa tifa per ogni progetto in cantiere, dai futuristi rigassificatori off shore alle vecchie centrali sovietiche che l'Enel ha acquistato in Slovacchia e Bulgaria, e chiede di dimostrare una «responsabilità bipartsan» approvando in tutta fretta la costruzione di gassificatori e centrali nucleari.
Il ritorno all'atomo è sponsorizzato da un ampio fronte internazionale che ha visto in Tony Blair un campione assoluto e nell'International Energy Agency, la controparte occidentale dell'Opec, una sponda di prestigio. Per loro l'unico modo di abbattere le emissioni che provocano il riscaldamento globale è investire, di qui al 2030, una cosa come 17 mila miliardi di dollari per costruire nuove centrali. Ora, tralasciando il piccolo particolare che le riserve mondiali di uranio saranno sufficienti per appena 20 anni e che già sono cominciate le guerre per accaparrarsi le ultime scorte - il Darfur ha la disgrazia di essere ricco di questo minerale - il ritorno all'energia nucleare è una follia soprattutto dal punto di vista economico. Le grandi compagnie sanno che non c'è alcuna possibilità di recuperare gli investimenti e quindi cercano di mobilitare i governi per raschiare, come si dice, il fondo del barile. Peccato che un programma nucleare su vasta scala non può risolvere né il problema dell'esaurimento dei combustibili fossili né, tanto meno, quello dell'effetto serra.
In primo luogo c'è la questione della tempistica. Anche se si lanciasse un programma in tempi rapidi non si potrebbe realisticamente sperare di produrre energia nucleare prima del 2020. Ora, come dice il geologo di fama internazionale Jeremy Leggett «proviamo a immaginare quali livelli potrebbero raggiungere le rinnovabili e l'efficienza energetica nel 2020 se disponessero anche solo di una minima parte dell'appoggio di cui ha goduto il nucleare in mezzo secolo». Un serio programma di investimenti per rammodernare reti elettriche vecchie di 50 anni e un piccolo sostegno allo sviluppo delle rinnovabili, darebbero risultati sostanziosi da domani, non fra quindici anni.
Il secondo problema riguarda gli investimenti. Oggi, nel pieno della liberalizzazione dei mercati energetici mondiali, nessuna istituzione finanziaria vede nell'energia nucleare una proficua opportunità d'investimento. Lunghi tempi di progettazione, costi imprevedibili dei nuovi tipi di reattori (quelli considerati sicuri) e spese per lo smaltimento delle scorie rendono il nucleare ben poco competitivo a meno che, e questa è la strategia abbracciata dalla lobby dell'atomo, non venga orchestrata una campagna allarmistica che trasformi la costruzione delle centrali in emergenza nazionale da finanziare con i soldi dei contribuenti.
L'altro enorme problema, ancora irrisolto, sono le scorie. Basti pensare che le scorie prodotte durante la breve stagione del nucleare italiano sono ancora da smaltire. Dopo avere cercato di propinarle alla Somalia (come aveva scoperto Ilaria Alpi) e poi di mollarle agli abitanti di Scanzano, oggi probabilmente le scorie stanno venendo "esportate" in qualche remoto paesino russo o kazako dove qualche amministratore compiacente li seppellirà in una cava in cambio di un po' di denaro. E questo è niente:anche lasciando da parte il rischio d'incidente - che ovviamente non si può escludere - si tratta di un incubo ambientale quasi equivalente al problema del riscaldamento globale che si vorrebbe risolvere.
E qui arriviamo al nocciolo del ragionamento dei convertiti all'atomo: i reattori producono una quantità esigua di gas serra. Ora, senza annoiare i lettori con i calcoli dell'organizzazione dell'Onu che si occupa di cambiamento climatico (l'Ipcc), indubbiamente il conteggio delle emissioni è a favore degli impianti nucleari rispetto, per esempio, alle centrali a carbone. Il problema e per far quadrare i conti bisogna tenere fuori dal calcolo i gas serra emessi durante l'estrazione e la lavorazione dell'uranio, quelli emessi durante la costruzione delle centrali e quelli, decisamente ingenti, derivati dal trasporto e dalla lavorazione delle scorie. Una volta inseriti nell'equazione anche questi dati, ecco che l'energia nucleare appare molto meno verde di come la si dipinge. Il tutto quando sono già disponibili, e a costi incomparabilmente più contenuti, una miriade di tecnologie per incrementare l'efficienza energetica e utilizzare energie rinnovabili davvero pulite.
Insomma, ci troviamo di fronte a un cambiamento epocale - il riscaldamento globale e l'esaurimento dei combustibili fossili - che dobbiamo affrontare con scarsità di risorse e di strumenti operativi visto che la furia distruttiva della stagione iper-liberista ha tagliato le unghie a governi e organismi di controllo. Per gestire il passaggio ci saranno pochi soldi e pochi strumenti per monitorare come vengono usati, il che dovrebbe suggerire ai governanti di spendere poco e bene, possibilmente investendo nelle opere a più alto impiego di manodopera e a più basso impiego di capitale. Se venisse stilata una lista delle priorità basata su questi parametri, al primo posto ci sarebbe certamente il rifacimento dell'intera rete elettrica nazionale che si lascia sfuggire un 15-20% dell'energia, l'equivalente di parecchie centrali. Naturalmente nella lista andrebbero anche le rinnovabili, fermo restando che un chilowatt risparmiato costa sempre meno di un chilowatt prodotto. Utilizzando tali criteri, più economici che ecologici, l'energia nucleare non riuscirebbe a piazzarsi nemmeno agli ultimi posti. E' un ragionamento anti-industriale? C'è il rischio di frenare lo sviluppo? Forse sarebbe opportuno cominciare a esplicitare di quale sviluppo e quali interessi si stia parlando, se quelli dei grandi gruppi come il Carlyle o quelli dei contribuenti.
di Sabina Morandi
Liberazione del 08/11/2007
Il ritorno all'atomo una follia economica e ambientale. Le alternative ci sono e i benefici sarebbero immediati
«E' molto più facile promettere invenzioni fantascientifiche piuttosto che infastidire le lobby industriali imponendo loro degli standard di efficienza energetica più elevati». A scrivere questa lapalissiana verità sulle pagine del Financial Times non è il capo di Greenpeace ma Franck Vervastro, esperto energetico del Center for Strategic and International Studies. State sicuri quindi che, vista la composizione del World Energy Council che terrà la prossima settimana a Roma il suo 20° congresso, di invenzioni miracolose ne verranno annunciate parecchie. A dirigere l'orchestra, del resto, c'è Chicco Testa, ambientalista storico decisamente pentito dei suoi trascorsi anti-nucleari: dalla presidenza di Legambiente - che Testa guidava proprio negli anni in cui si tenne il referendum - è approdato al consiglio d'amministrazione dell'Enel e, fino al 2005, all'European Advisory Board del Carlyle Group, il mega-fondo di investimento della famiglia Bush. Oggi Chicco Testa tifa per ogni progetto in cantiere, dai futuristi rigassificatori off shore alle vecchie centrali sovietiche che l'Enel ha acquistato in Slovacchia e Bulgaria, e chiede di dimostrare una «responsabilità bipartsan» approvando in tutta fretta la costruzione di gassificatori e centrali nucleari.
Il ritorno all'atomo è sponsorizzato da un ampio fronte internazionale che ha visto in Tony Blair un campione assoluto e nell'International Energy Agency, la controparte occidentale dell'Opec, una sponda di prestigio. Per loro l'unico modo di abbattere le emissioni che provocano il riscaldamento globale è investire, di qui al 2030, una cosa come 17 mila miliardi di dollari per costruire nuove centrali. Ora, tralasciando il piccolo particolare che le riserve mondiali di uranio saranno sufficienti per appena 20 anni e che già sono cominciate le guerre per accaparrarsi le ultime scorte - il Darfur ha la disgrazia di essere ricco di questo minerale - il ritorno all'energia nucleare è una follia soprattutto dal punto di vista economico. Le grandi compagnie sanno che non c'è alcuna possibilità di recuperare gli investimenti e quindi cercano di mobilitare i governi per raschiare, come si dice, il fondo del barile. Peccato che un programma nucleare su vasta scala non può risolvere né il problema dell'esaurimento dei combustibili fossili né, tanto meno, quello dell'effetto serra.
In primo luogo c'è la questione della tempistica. Anche se si lanciasse un programma in tempi rapidi non si potrebbe realisticamente sperare di produrre energia nucleare prima del 2020. Ora, come dice il geologo di fama internazionale Jeremy Leggett «proviamo a immaginare quali livelli potrebbero raggiungere le rinnovabili e l'efficienza energetica nel 2020 se disponessero anche solo di una minima parte dell'appoggio di cui ha goduto il nucleare in mezzo secolo». Un serio programma di investimenti per rammodernare reti elettriche vecchie di 50 anni e un piccolo sostegno allo sviluppo delle rinnovabili, darebbero risultati sostanziosi da domani, non fra quindici anni.
Il secondo problema riguarda gli investimenti. Oggi, nel pieno della liberalizzazione dei mercati energetici mondiali, nessuna istituzione finanziaria vede nell'energia nucleare una proficua opportunità d'investimento. Lunghi tempi di progettazione, costi imprevedibili dei nuovi tipi di reattori (quelli considerati sicuri) e spese per lo smaltimento delle scorie rendono il nucleare ben poco competitivo a meno che, e questa è la strategia abbracciata dalla lobby dell'atomo, non venga orchestrata una campagna allarmistica che trasformi la costruzione delle centrali in emergenza nazionale da finanziare con i soldi dei contribuenti.
L'altro enorme problema, ancora irrisolto, sono le scorie. Basti pensare che le scorie prodotte durante la breve stagione del nucleare italiano sono ancora da smaltire. Dopo avere cercato di propinarle alla Somalia (come aveva scoperto Ilaria Alpi) e poi di mollarle agli abitanti di Scanzano, oggi probabilmente le scorie stanno venendo "esportate" in qualche remoto paesino russo o kazako dove qualche amministratore compiacente li seppellirà in una cava in cambio di un po' di denaro. E questo è niente:anche lasciando da parte il rischio d'incidente - che ovviamente non si può escludere - si tratta di un incubo ambientale quasi equivalente al problema del riscaldamento globale che si vorrebbe risolvere.
E qui arriviamo al nocciolo del ragionamento dei convertiti all'atomo: i reattori producono una quantità esigua di gas serra. Ora, senza annoiare i lettori con i calcoli dell'organizzazione dell'Onu che si occupa di cambiamento climatico (l'Ipcc), indubbiamente il conteggio delle emissioni è a favore degli impianti nucleari rispetto, per esempio, alle centrali a carbone. Il problema e per far quadrare i conti bisogna tenere fuori dal calcolo i gas serra emessi durante l'estrazione e la lavorazione dell'uranio, quelli emessi durante la costruzione delle centrali e quelli, decisamente ingenti, derivati dal trasporto e dalla lavorazione delle scorie. Una volta inseriti nell'equazione anche questi dati, ecco che l'energia nucleare appare molto meno verde di come la si dipinge. Il tutto quando sono già disponibili, e a costi incomparabilmente più contenuti, una miriade di tecnologie per incrementare l'efficienza energetica e utilizzare energie rinnovabili davvero pulite.
Insomma, ci troviamo di fronte a un cambiamento epocale - il riscaldamento globale e l'esaurimento dei combustibili fossili - che dobbiamo affrontare con scarsità di risorse e di strumenti operativi visto che la furia distruttiva della stagione iper-liberista ha tagliato le unghie a governi e organismi di controllo. Per gestire il passaggio ci saranno pochi soldi e pochi strumenti per monitorare come vengono usati, il che dovrebbe suggerire ai governanti di spendere poco e bene, possibilmente investendo nelle opere a più alto impiego di manodopera e a più basso impiego di capitale. Se venisse stilata una lista delle priorità basata su questi parametri, al primo posto ci sarebbe certamente il rifacimento dell'intera rete elettrica nazionale che si lascia sfuggire un 15-20% dell'energia, l'equivalente di parecchie centrali. Naturalmente nella lista andrebbero anche le rinnovabili, fermo restando che un chilowatt risparmiato costa sempre meno di un chilowatt prodotto. Utilizzando tali criteri, più economici che ecologici, l'energia nucleare non riuscirebbe a piazzarsi nemmeno agli ultimi posti. E' un ragionamento anti-industriale? C'è il rischio di frenare lo sviluppo? Forse sarebbe opportuno cominciare a esplicitare di quale sviluppo e quali interessi si stia parlando, se quelli dei grandi gruppi come il Carlyle o quelli dei contribuenti.
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