martedì 29 luglio 2008

Nucleare Se dentro l’energia si nasconde un demone

Nucleare Se dentro l’energia si nasconde un demone

La Repubblica del 29 luglio 2008, pag. 36

di Maurizio Ricci

E’ il nucleare la risposta alla crisi dell’energia?Anzitutto, bisogna capire di cosa stiamo parlando. Se il problema è il pieno della vostra macchina, il nucleare non può fare nulla. L’Italia potrebbe essere lastricata di centrali atomiche, ma, fino a quando non ci saranno in giro centinaia di migliaia di auto elettriche, il problema del pieno resterà il problema del petrolio, che è una partita diversa e indipendente dal nucleare. L’energia che può fornire l’atomo, invece, è l’elettricità. E, pur se non serve per auto e aerei, anche l’elettricità che alimentai vostri condizionatori, le vostre lampadine, i vostri televisori è un problema fondamentale dei prossimi decenni. Secondo l’Aie, l’agenzia per l’energia dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati, i consumi di elettricità sono destinati a raddoppiare o triplicare, da qui al 2050. Ma nessuno sa come produrre questi kilowatt. Il gas, che è oggi il combustibile cui più si ricorre per far funzionare le centrali, ha riserve, anch’esse, limitate e fornitori (Russia, Algeria, Qatar, Iran) che molti ritengono poco affidabili. Soprattutto, il gas produce anidride carbonica. Nessuna lotta all’effetto serra sarebbe possibile, con un ricorso sempre più massiccio al metano.



Secondo molti, questo fa del nucleare una ricetta vincente. Il combustibile che alimenta le centrali costa relativamente poco e l’impianto non produce neanche un grammo di Cot. Ma quella ricetta è, probabilmente, solo un’illusione. In uno scenario, disegnato dalla stessa Aie per far fronte ai bisogni di elettricità al 2050, si ipotizza un contributo del nucleare, con la costruzione di un migliaio di nuove centrali (metà destinate a sostituire quelle oggi già in funzione), al ritmo di una trentina l’anno. Una corsa mozzafiato: secondo Charles Ferguson, dell’autorevole Council for Foreign Relations americano, l’ingorgo di appalti e commesse che ne deriverebbe farebbe salire i costi delle centrali a livelli insostenibili. In più c’è il problema uranio. Gli impianti nucleari ne consumano poco, ma, anche così, ai ritmi attuali di produzione, le riserve mondiali durerebbero 70 anni. Con un numero doppio di centrali, si esaurirebbero in 30-40 anni, lasciando a secco i reattori. Infine, anche mille centrali nucleari ridurrebbero la Cot nell’atmosfera solo del 6 per cento.



Se l’atomo non è la bacchetta magica per risolvere il problema elettricità, questo non significa che non possa fornire un contributo più limitato, ma significativo. Anche perché, accanto al costo del combustibile e all’assenza di effetto serra, il nucleare ha un terzo punto di forza: è un matrimonio perfetto con le energie rinnovabili. Vento e sole producono molta energia, quando c’è molto vento o molto sole. Zero, quando non ce n’è. Per far funzionare, in qualsiasi condizione, condizionatori e televisori devono, perciò, essere affiancate da una fonte di energia in grado di fornire uno zoccolo di produzione costante, come quella delle centrali nucleari. Per celebrare questo matrimonio, però, l’atomo dovrebbe superare due ostacoli che, da decenni, gli appesantiscono il decollo. Il primo è la sicurezza. I nuovi reattori sono molto più sicuri di quelli costruiti negli anni’80: meno incidenti, molto più limitati. Mail concetto di sicurezza, per il nucleare, non è lo stesso che si applica agli altri impianti. Una centrale a gas che esplode si traduce in una palla di fuoco che incenerisce centinaia di metri tutto attorno e, forse, provoca qualche decina di vittime. Punto: il disastro si ferma qui. Un incidente in un impianto nucleare ha molte meno probabilità di verificarsi, ma quella probabilità minima potrebbe avere effetti catastrofici a livello globale. Ne abbiamo avuto un piccolo assaggio, in questi giorni, alla centrale francese di Tricastin, dove un modesto incidente ha fatto scattare, fra l’altro, l’allarme falde acquifere, con il divieto di utilizzare l’acqua potabile. La possibilità di una fuoriuscita radioattiva sarà remota, ma i suoi effetti imprevedibili, incontenibili, devastanti. Il secondo problema sono le scorie, il residuo del lavoro del reattore. Nonostante 440 centrali operanti nel mondo, nessuno ha ancora risolto il problema del loro stoccaggio. Le soluzioni trovate finora sono solo temporanee. Ad un costo di cui si parla poco, ma che è pesante. L’Italia sta spendendo 300 milioni di euro (cioè il 15 per cento di quanto costerebbe, nel caso più ottimistico, una nuova centrale) solo per sistemare provvisoriamente le scorie prodotte dai piccoli impianti atomici, in funzione negli anni ‘80, a Trino, a Caorso, a Latina. Paesi con realtà nucleari più importanti, come la Gran Bretagna, si trovano di fronte ad una bolletta di 100 miliardi di euro per la sistemazione delle centrali ormai obsolete.



Allora, il nucleare è un vicolo cieco? Niente affatto. I reattori attualmente allo studio, quelli di quarta generazione, dovrebbero risolvere almeno due dei problemi che incontra oggi una strategia nucleare. Siccome utilizzano più a fondo il combustibile, hanno bisogno di meno uranio e producono meno scorie. Il problema è che non saranno, probabilmente, disponibili prima del 2030. Troppo tardi, per chi pensa che sia necessario affrontare il probabile buco di elettricità disponibile, già con le centrali nucleari nel 2020. Troppo presto, per chi pensa che quelle centrali del 2020 diventerebbero obsolete nel giro di soli dieci anni.



Ma c’è un altro inciampo sulla strada del nucleare subito e comunque. E non ha niente a che vedere con le paure per la salute e le preoccupazioni per l’ambiente. E’ il costo della strategia nucleare. In termini economici, infatti, i punti di forza del nucleare si traducono in debolezze. In una centrale a gas il costo fondamentale è quello del carburante, che incide solo per il 5 per cento nel bilancio di una centrale atomica. Il parametro fondamentale, in questo caso, è il costo di costruzione: il reattore deve vendere i suoi kilowattora ad un prezzo sufficiente a ripagare l’investimento fatto per costruirlo. Qual è questo investimento? La cifra che circola fra gli industriali del settore è ancora di 2 miliardi di euro per una centrale da 1000 Megawatt. Ma uno dei più importanti fra loro - Wulf Bernotat, leader di E.On, uno dei giganti europei del settore - dichiara che il costo reale è, ormai, quasi il doppio: 3,5 miliardi di euro. Secondo Moody’s, una delle agenzie di rating che sarà cruciale nel rendere disponibili i finanziamenti delle nuove centrali, è di 4,6 miliardi di euro. Secondo un gigante americano, impegnato nella progettazione di nuove centrali, Florida Power&Light, si arriva a 5,2 miliardi di euro. Qui, il problema non è soltanto se l’Italia, per dotarsi di dieci centrali da 1000 Megawatt, debba impegnare 20, 35, 46 o oltre 50 miliardi di euro. Il punto è che quel costo vincolerà anche le future bollette. Una centrale nucleare è, economicamente, rigida. Non si può spegnere, come un impianto a gaso eolico: deve sempre funzionare al 90-95 per cento della capacità e vendere la sua produzione ad un prezzo sufficiente a ripagare l’investimento, almeno per 15-20 anni. Altrimenti, va in perdita, come è successo per le centrali inglesi, arrivate alla bancarotta negli anni ‘90. Infatti, i sostenitori del nucleare cominciano a parlare della necessità di assicurare "stabilità dei prezzi". In un mondo, quello dell’energia, in continua evoluzione (sole, vento, carbone pulito) è un impegno difficile da onorare. Presuppone un accordo tra i produttori (cioè un cartello) o un calmiere statale (una nazionalizzazione mascherata). Può darsi che, alla fine, il kilowattora nucleare si riveli il più economico. Ma potrebbe anche rivelarsi il più costoso, fuori mercato. Dopo la sicurezza e le scorie, è la terza scommessa che il nucleare deve vincere.



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