sabato 31 maggio 2008

La storia del Piemonte e del deposito di scorie vercellese, rivela la follia di un ritorno all'atomo

Liberazione, 31 maggio 2008
La storia del Piemonte e del deposito di scorie vercellese, rivela la follia di un ritorno all'atomo
Ministro Scaiola, conosce Saluggia?

Matteo Salvai
Da quando si è insediato, il nuovo ministro alle Attività Produttive Scajola, prospetta un giorno sì e l'altro anche il ritorno al nucleare. L'ultima idea è quella di proporre bollette scontate per i cittadini delle comunità che ospitano centrali nucleari. "Chi subirà il disturbo psicologico (perché solo di questo si tratta!) di ospitare una centrale dovrà essere premiato" ha dichiarato ai microfoni di Sky24. Beh! Di disturbi psicologici in Piemonte siamo esperti. La breve avventura dell'atomo in Italia tra gli Anni '60 e '70 ha lasciato infatti proprio sul territorio della nostra regione scorie non ancora smaltite e problemi di messa in sicurezza dei siti esistenti, in cambio di pochissima energia prodotta.
A Trino esiste la centrale Enrico Fermi che iniziò la sua produzione dall'ottobre 1964. Il reattore fu fermato nel ‘67 a causa di problemi tecnici e riavviato nel '70 dopo le riparazioni. Una seconda fermata fu imposta nel 1979 per gli adeguamenti decisi in seguito all'incidente di Three Mile Island (Usa). Reattore fermo fino a tutto il 1982, poi operativo fino al 1987: produzione globale in 4 anni pari alla quantità di energia elettrica che l'Italia consuma in un mese. Nel luglio 1990 il Cipe dispose la sua chiusura definitiva. Una parte degli elementi di combustibile irraggiati è stata trasferita al Deposito Avogadro di Saluggia. Nel 2000, la Sogin ha presentato un progetto di smantellamento dell'impianto che prevede nella sostanza di trasformare il sito di Trino in "deposito di se stesso".
A Saluggia c'è l'impianto Eurex, realizzato nel periodo 1965-1970. Obiettivo il riprocessamento degli elementi di combustibile irraggiati provenienti da varie centrali, al fine di recuperarne l'uranio e il plutonio contenuti. A partire dall'ottobre 1970 sono stati riprocessati 506 elementi Mtr e 72 elementi Candu, fatti appositamente arrivare dalla centrale canadese di Pickering. L'attività ha prodotto una grande quantità di rifiuti ad alta radioattività che sono tuttora custoditi in forma liquida presso lo stesso impianto, che è collocato a poche decine di metri dal fiume Dora Baltea, e a meno di due chilometri dai pozzi dell'Acquedotto del Monferrato che serve oltre 100 Comuni.
In Provincia di Alessandria, a Bosco Marengo, dal 1973 al 1995 l'Ifn (Impianto Fabbricazioni Nucleari), ha prodotto i materiali nucleari per le centrali di Garigliano, Caorso, e Trino oltre che per alcuni reattori esteri. Nel 1996 è stato presentato un piano di disattivazione.
«I tre esempi piemontesi dimostrano come un territorio abbia pagato e paghi ancora per scelte sbagliate - dichiara la consigliera regionale di Prc, Paola Barassi - Ci sono mille ragioni per dire no al nucleare che produce scorie radioattive non smaltibili in sicurezza, che è tecnologia costosa, che si basa su una materia prima in via di estinzione, che è frutto di una cultura legata al passato. E poi vi è l'enorme problema del sito unico nazionale per lo smaltimento delle scorie, finora mai individuato dal Governo. Prima di riparlare di nucleare dobbiamo pensare a risolvere i problemi che l'atomo ci ha già lasciato dal passato".

venerdì 30 maggio 2008

Gli ambientalisti contro il nucleare "Costa troppo, meglio le fonti rinnovabili"

Gli ambientalisti contro il nucleare "Costa troppo, meglio le fonti rinnovabili"

La Repubblica del 30 maggio 2008, pag. 35

Nucleare e liberalizzazione dei mercato sono incompatibili, tanto è vero che le centrali si costruiscono solo quando, in un modo o nell’altro, a sostenere il costo è la mano pubblica, cioè quando i fondi vengono presi dalle tasche dei contribuenti». Così le associazioni ambientaliste (Legambiente, Wwf, Greenpeace) hanno criticato la scelta di un ritorno al nucleare.

«In Italia», continuano gli ambientalisti, «occorrerebbe costruire da zero tutta la filiera, con un immenso esborso di risorse pubbliche. Servirebbero almeno 10 centrali (per un totale di 10-15mila megawatt) che costerebbero tra i 30 e i 50 miliardi di euro. E l’ambiente non se ne avvantaggerebbe perché, al di là del rischio di un disastro atomico, il primo impianto entrerebbe in funzione tra almeno 10 anni. Al prezzo di sacrificare le energie dolci che invece potrebbero partire subito e a prezzi molto più bassi.

martedì 27 maggio 2008

Nucleare sì, ma non così

Nucleare sì, ma non così

Corriere della Sera del 27 maggio 2008, pag. 34

di Alessandro Ovi

Caro Direttore, ho letto sul Corriere il fondo di Dario Di Vico («La fine dei tabù», 23 maggio) sul ritorno al nucleare con molto interesse ma anche con un po’ di malinconia e di preoccupazione. Malinconia perché considero quella nucleare l’ingegneria più complessa, critica e affascinante. Mi sono laureato in Ingegneria Nucleare nel ‘68 al Politecnico di Milano, poi sono stato anche al Mit dove si spiegava che senza la cultura rigorosa di «sistema Paese» che viene dalla familiarità col nucleare militare, è difficile giustificare in termini di costi e sicurezza una produzione elettrica nucleare rilevante. Al ritorno in Italia ho cambiato mestiere, ma ho votato per il nucleare al referendum e ho continuato a seguire il settore.



Preoccupazione perché vedo che l’informazione sul ritorno al nucleare non è in linea con la visione serena dei fatti, indispensabile a una politica energetica corretta, col petrolio a 130$ e l’incubo dell’ effetto serra. Cito tre esempi.



Primo: non conosco alcun filonucleare onesto in grado di sostenere che prima di 8-10 anni potrà entrare in esercizio in Italia una centrale atomica, anche usando le tecnologie oggi provate di terza generazione, anche perché trovare dove farla e dove confinare le scorie, radioattive per secoli, non è semplice. Secondo: dire che il nucleare mitiga l’effetto del biofuel da cereali sul prezzo del grano è improprio. Il biofuel non alimenta le centrali ma le automobili, e il nucleare non serve a farle andare, prima che arrivi il tempo dell’idrogeno. Il biofuel crea problemi al prezzo del frumento perché è spinto da incentivi sbagliati, non perché mancano centrali nucleari.



Terzo: pensare che il mondo «povero» tragga beneficio dal nucleare, senza che gli si trasferisca alcuna tecnologia, è antistorico. Si parla dei reattori «sigillati» e gestiti dai produttori francesi, americani, e giapponesi, impianti dal «profumo coloniale» che non vuole nessuno. La gente del Terzo mondo vuole energia autonoma, diffusa e rapida da installare, e dato che in gran parte sta al caldo, pensa al solare che ha queste caratteristiche. Sogna il deserto come solar farm, e il campo dietro le capanne fuori rete, per lampadina e pompa dell’acqua.



Questi sono solo spunti di una riflessione che suggerisce di parlare di nucleare solo in una strategia energetica complessiva.



Enfatizzo i tempi lunghi del nucleare perché viviamo in un contesto di innovazione fortissima delle altre fonti energetiche, a partire dal solare, fino al biofuel da batteri con alghe. Il solare fotovoltaico, in particolare, già tra cinque anni può arrivare alla grid parity, quando l’impianto diventa conveniente anche senza incentivi, con prezzi delle celle solari a mille euro al kilowatt. Dipende anche dal dove, certo, (Catania è meglio di Bologna, ma peggio di Addis Abeba).



Conosco società americane che hanno raccolto centinaia di milioni di dollari per fabbriche con le nuove tecnologie in California e nel Brandeburgo. FirstSolar, la prima quotata in Borsa, è cresciuta del 700% in un anno. Negli Usa ci credono e, comunque, da qualche lustro, non hanno più costruito nessuna centrale nucleare.



Servono investimenti bilanciati sullo sviluppo di fonti a emissione zero nelle tecnologie che stanno arrivando, non di quelle che ci sono già. Ciò vale anche per il nucleare di quarta generazione che offre soluzioni davvero nuove per la sicurezza, per le scorie, e per gli approvvigionamenti di uranio anche loro limitati. Ripartire da zero a far centrali con le tecnologie di oggi è un po’ come rimettersi a far carrozze (anche se sempre più belle e comode) quando si stanno aprendo le prime fabbriche di automobili.





NOTE

direttore di Technology Review
www.technologyreview.it

Le tante favole sul nucleare

Le tante favole sul nucleare

Il Manifesto del 27 maggio 2008, pag. 13

di Massimo Serafini

Ribellarsi alla sciagurata decisione di riaprire l’avventura nucleare è giusto, necessario, possibile e mi auguro divertente. «Nucleare no grazie» perché non aiuta questo paese a ridurre i gas serra e a cogliere le opportunità che farlo produce, ma lo condanna solo al declino, lo espone a pericoli, a proibitivi costi dell’energia, a un’opprimente centralizzazione di ogni decisione. Non sarà facile ribellarsi, visto che una centrale elettrica, ma anche una discarica, sono state equiparate a siti militari «invalicabili» e per chi protesta le botte di Napoli saranno la regola. Ma se si vuol bene a questo paese bisogna, come vent’anni fa, ribadire quel «no grazie» che pronunciammo allora: rimane una tecnologia intrinsecamente insicura che non si sa come dismettere, né come smaltirne le scorie.



Ribellarsi anche alla falsa informazione di gran parte dei giornali che da mesi imbottiscono di balle l’opinione pubblica, come quando scrivono di quarta generazione dei reattori, omettendo che per ora si tratta solo di una ricerca che forse fra dieci, quindici anni darà qualche frutto.



Ribellarsi perché i costi di questa scelta saranno scaricati sulla collettività e non su qualche imprenditore disposto a rischiare. Chi pagherà, ministro Scajola, l’annunciato primo mattone e quelli successivi, la cui posa lei ha promesso, entro la legislatura, a una platea di imprenditori che festeggiavano la loro presidentessa, Emma Marcegaglia, nota nuclearista nonché convinta che Kyoto consista solo in «lacci e lacciuoli»?



Ministro, faccia il nome e il cognome di un imprenditore interessato a rischiare i suoi soldi in questa avventura. Sapendolo gli potremmo chiedere a quanto, per guadagnarci, dovrà vendere alla rete elettrica il kwh, dopo avere investito per costruire la centrale, ricostruire la filiera, la gestione e il riprocessamento dell’uranio e del plutonio, le necessarie strutture di verifica e controllo, lo smantellamento delle centrali a fine vita, l’immagazzinamento delle scorie per migliaia di anni e l’impegno militare per proteggere le centrale da attacchi terroristici? Altro che elettricità meno cara. Faccia dunque un nome ministro o se le cose stanno come per le cordate dell’Alitalia ci lasci chiedere ai «soliti noti» di ribellarsi.



Mi rivolgo al ministro ombra dell’ambiente per sollecitarlo a convincere il suo governo a fare una determinata opposizione a questa scelta. Non le chiedo solo di dire no, ma di avanzare proposte alternative. Ad esempio potrebbe convocare architetti, ingegneri, muratori, pianificatori, e insieme a loro definire un progetto per eliminare, dalle 200 milioni di tonnellate equivalenti petrolio che consumiamo ogni anno, una parte di quel 50% di sprechi. Ad esempio quelli per riscaldare, rinfrescare e illuminare il nostro patrimonio abitativo. Oppure presenti un piano alternativo che produca, fra un anno e non fra dieci, gli stessi 10000 mw delle centrali previste, sfruttando il vento, il sole, i salti dei fiumi, i residui dei boschi e dei campi. E ancora proponga come prima grande opera le infrastrutture necessarie a trasferire in cinque anni il 10% delle merci da gomma a cabotaggio e ferro. Molti «ribelli» si metteranno in marcia per il clima e un’altra energia il sette giugno a Milano. Lo faranno dicendo no a nucleare e carbone e sì a un modello dì democrazia energetica fatto di fonti rinnovabili diffuse nel territorio, di gas perla transizione e di efficienza, ma anche di stili di vita più rispettosi del fatto che l’energia servirà presto a sette otto miliardi di persone.

lunedì 26 maggio 2008

«Veronesi ha dato via libera al nucleare? Si occupi di medicina. La Fisica è altra cosa»

«Veronesi ha dato via libera al nucleare? Si occupi di medicina. La Fisica è altra cosa»

di Maurizio Pagliassotti

Liberazione del 25/05/2008

Nel convegno che si è svolto ieri a Torino sullo scottante argomento dell'energia, il focus dell'attenzione doveva essere centrato sul piano che la Regione Piemonte ha battezzato "Uniamo le energie", ovvero un progetto strategico che prevede 20% di riduzione del consumo energetico, 20% di riduzione delle emissioni di gas serra, 20% di passaggio a fonti di energia alternative e rinnovabili, da raggiungere tutti insieme entro il 2020. Due giorni di incontri e studio ma anche di festa (questa per sensibilizzare i giovani a cui - così ormai pensano tutti - se non dai un po' di intrattenimento non li trascini sugli argomenti seri).
Ospite d'onore il premio Nobel per la Fisica Carlo Rubbia che nell'idea degli organizzatori non avrebbe dovuto occuparsi delle recenti scelte del governo Berlusconi in tema di energia. E invece tutto è stato rivoluzionato perché Rubbia è stato assediato da domande riguardanti il nucleare e la prossima costruzione di nuove centrali, con immenso e ben esternato fastidio di Mercedes Bresso, padrona di casa.
Rubbia è stato un fiume in piena, ha spaziato dalla scienza alla politica, il tutto con eleganza, infiocchettando anche gli attacchi più duri.
Come quando gli abbiamo posto la domanda riguardante il via libera al nucleare, «inevitabile e non pericoloso», dato dal professore divo Umberto Veronesi.
«Il professor Veronesi, che stimo come medico e come ministro, di cosa si occupa? Di oncologia, e lo fa anche bene. Io non mi occupo di cancro e non ne parlo. Continui a dedicarsi a questo settore e lasci ambiti scientifici e tecnici come il nucleare agli scienziati che hanno passato anni a studiarli... Sono argomenti delicati che necessitano di conoscenze approfondite. Definire quale sia il grado di rischio rispetto al nucleare è estremamente difficile. In genere c'è sempre molta gente che esprime punti di vista senza averci pensato».
In maniera molto garbata Rubbia risponde a Veronesi dicendogli di occuparsi di ciò che conosce e basta. Anche la presidente della Regione, Mercedes Bresso ha convenuto con il professor Rubbia: «Ecco Veronesi si occupi di cancro e basta», ha mormorato stizzita e si è detta contraria all'apertura di nuove centrali sul territorio piemontese.
In mattinata il sindaco Chiamparino era stato più possibilista: «Dipende, è un argomento complesso».

Professore, le esternazioni politiche di questi giorni sono solo slogan oppure soluzioni tecnologiche fattibili?
Io credo che il politico senza lo scienziato sia cieco. Il politico oggi non può pensare di capire e risolvere da solo questi problemi. Quando un uomo è malato va dal miglior medico che può trovare, non da uno stregone. E' chiaro che se vengono ascoltati gli stregoni e non gli scienziati non si troverà la soluzione migliore. Si deve quindi dire che non tutte le persone sono uguali perché ci sono quelli che le cose le capiscono e altri invece no. Dobbiamo sviluppare la vera scienza.

Il governo sostiene che il ritorno al nucleare sia un interesse nazionale, lei cosa ne pensa?
E' un problema molto più complesso. E' una questione su cui riflettere con grande serietà e calma. E' possibile che sia la soluzione giusta, ma prima dobbiamo fare un'analisi approfondita. Però molte delle cose si stanno dicendo sono boutade, cose campate in aria, frasi figlie della sbornia post vittoria elettorale. Il momento della verità dovrà emergere e allora si valuteranno anche gli aspetti negativi di queste scelte.

Il futuro dell'energia atomica è legato all'uranio?
Per produrre un gigawatt del nucleare attuale occorrono 200 tonnellate di uranio, mentre per la stessa energia occorre una tonnellata di torio. In più, con il torio non si può costruire la bomba atomica e, in questo modo, si risolverebbe anche il grande problema del nucleare militare. Il torio è un metallo reperibile in natura e lo sviluppo tecnologico per il suo utilizzo non è così lontano, è fattibile tra non molto tempo. Per risolvere il problema energetico ci sono due soluzioni: l'energia solare e il nuovo nucleare. Sono convinto che l'intelligenza degli uomini riuscirà a risolvere anche il problema dell'energia grazie alla ricerca.

Il nucleare ha un futuro o verrà soppiantato dalle energie alternative?
Se mi si domanda se tra 300 anni ci sarà ancora il nucleare, la risposta è sì, ma sarà un nucleare diverso. Esistono molte reazioni nucleari, con principi e funzioni diversi. Non esiste solo il nucleare del "Manhattan project" quello che fu studiato per la bomba atomica, ma che poi è diventato, in un certo senso, il motore dello sviluppo civile dell'energia nucleare. La fissione e la fusione sono le filiere più promettenti, per il futuro, per la produzione di energia.

Che cosa è necessario adesso per risolvere il problema energetico?
Abbiamo bisogno di quello che gli americani chiamano the unthinkable idea , ovvero l'inimmaginabile. Per questo si deve avere fiducia nella ricerca anche se questa non dà soluzioni immediatamente spendibili.

Corsa all’atomo, potrebbe mancare il combustibile

Corsa all’atomo, potrebbe mancare il combustibile
Il Sole 24 Ore del 26 maggio 2008, pag. 12

di Giorgio S. Frankel

Dopo un’eclissi durata decenni, per il nucleare sembra vicina una spettacolare rentrée sulla scena energetica globale, nel Nord ricco del mondo (dall’Italia alla Gran Bretagna) come nel Sud in via di sviluppo. Ma la futura domanda di nuove centrali elettronucleari e del relativo combustibile potrebbe risultare insostenibile per la lunga "atrofia" del settore. Solo negli Usa si prevede che nel 2007-2009 le società elettriche chiederanno le autorizzazioni per oltre 3o nuovi reattori. Anche la Cina per i prossimi 15 anni progetta 29 reattori (e durante la sua recente visita a Pechino il neo presidente russo Dimitri Medvedev ha annunciato la vendita di un quarto impianto di arricchimento di uranio da oltre 1,5 miliardi di dollari), la Russia 15 e qualcosa si muove pure in Europa.



Fa inoltre scalpore un articolo del Washington Post, secondo cui più di 40 Pvs vogliono centrali atomiche. Tra essi, quasi tutti i Paesi arabi e la Turchia e già questo fa parlare di una possibile "corsa all’atomo" mediorientale in risposta al programma iraniano. Ma in questo allarme c’è, forse, molta propaganda anti-iraniana e antiaraba. In più, si temono altri rischi futuri di "proliferazione", perché alcuni Paesi ricchi di uranio vogliono disporre d’impianti di arricchimento e ritrattamento del combustibile per poi operare su scala commerciale in un settore finora dominato da Usa, Russia e da due consorzi europei, Urenco e Eurodif (controllato da Areva).



Verso il 2020, poi, i cinesi potrebbero esportare centrali in competizione coi costruttori americani (General Electric e Westinghouse, controllata però dalla nipponica Toshiba), europei (Areva, Siemens) e russi (ad esempio Atomstroiexport). Lo stesso potrebbero fare India e Giappone, due Paesi con tecnologia atomica assai avanzata.



Il possibile boom del nucleare civile viene proposto come l’unica risposta (forse) oggi possibile al grave dilemma energetica. Da un lato, il crescente fabbisogno globale, per cui la domanda di energia potrebbe salire del 50% da qui al 2030. Dall’altro, la crescente incertezza sulle future disponibilità fisiche di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) e comunque l’accresciuta necessità di limitarne l’uso per l’effetto serra. L’elettricità di origine nucleare è economicamente competitiva rispetto a quella delle centrali a combustibili fossili e assai più "pulita". La tecnologia è in continuo sviluppo e i "nuclearisti" dicono che le nuove centrali sono sicure.



Oggi sono in attività 439 reattori commerciali in 30 Paesi, che generano il 16% dell’elettricità mondiale. In Europa l’elettricità nucleare è il 30% del totale (80% in Francia) e il 20% negli Usa. Il nucleare è ancora concentrato in pochi Paesi: Usa (104 reattori), Francia (58) e Giappone (55) insieme hanno oltre metà dei reattori commerciali mondiali. Però, dei 36 nuovi reattori oggi in costruzione, la metà è in Asia. E il possibile nuovo round di ordini da parte di 4o e più Pvs contribuirà a mutare la geografia del nucleare nel mondo.



Ma forse a mutare fortemente potrebbe essere l’intero paradigma nucleare. Il previsto boom della domanda globale di centrali, se non è una "bolla", riflette l’ansia di molti Paesi per la propria sicurezza energetica, oggi un fattore-chiave della sicurezza nazionale.



Egualmente, chi investe molto nel nucleare non può poi rischiare di dipendere da pochi fornitori di uranio arricchito e quindi cercherà, se possibile, di gestire un proprio ciclo del combustibile. E i Paesi produttori di uranio avranno un legittimo interesse commerciale a entrare nel comparto dell’arricchimento e del ritrattamento, come stanno facendo (o vogliono fare) Canada, Australia, Argentina, Brasile, Namibia e Sudafrica. Per altri Paesi, lo sviluppo diun’industria nucleare nazionale sarà cruciale per il loro status economico, tecnologico e politico a livello globale.



Il boom del nucleare è però ancora problematico. La crescita della domanda di elettricità e la necessità di sostituire le centrali obsolete costringerà il settore a enormi sforzi solo per mantenere l’attuale quota dell’energia totale, mentre le esigenze ambientali e di sicurezza richiedono un aumento di tale quota. Ma le centrali hanno costi enormi e tempi dì realizzazione assai lunghi, la capacità mondiale di produrre componenti è limitata e c’è carenza di materiali e personale tecnico. Inoltre, resta aperto il problema delle scorie radioattive.

domenica 25 maggio 2008

Il Vaticano benedice il ritorno all'atomo

Il Gazzettino, 25 maggio 2008
CONSIDERATA UNA SCELTA GIUSTA
Il Vaticano benedice il ritorno all'atomo
Città del Vaticano

Trova plausi in Vaticano la scelta del governo Berlusconi di tornare al nucleare. A benedirla, con una punta di soddisfazione, è il cardinale Renato Raffele Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace. «Parlando da cittadino italiano - ha affermato il porporato - dico che la decisione del governo di tornare al nucleare è quanto mai conveniente. Parlando da cardinale ricordo che la Santa Sede è uno dei membri fondatori dell'Aiea, l'agenzia internazionale dell'energia atomica, che si propone di promuovere l'uso pacifico dell'energia nucleare».

Spiega Martino, uno degli uomini di curia dalla più ampia esperienza internazionale, ex osservatore permanente della Santa Sede presso l'Onu, che la decisione del governo è conveniente perché «l'Italia compra a caro prezzo l'energia elettrica prodotta con centrali nucleari dai Paesi confinanti con il nostro». Vanno poi superati, «quei timori nei confronti delle centrali atomiche originati dal disastro di Chernobyl e alla base del referendum del 1987» alla luce delle «nuove e molteplici ragioni» di oggi.

Le attuali centrali nucleari sono, infatti, «molto più perfezionate e moderne di quelle dell'epoca di Chernobyl, la cui esplosione - ricorda Martino - fu comunque causata da un errore umano». E poi, si chiede il porporato -facente funzioni anche di "ministro" dell'Ambiente vaticano - «gli italiani vanno costruendo centrali nucleari per il mondo. Perché non dovrebbero mettere le loro capacità a servizio del proprio Paese?». Tanto più che «le centrali italiane, dopo il referendum, non sono state del tutto dismesse e c'è ancora del qualificato personale che le mantiene e che ora potrà tornare a lavorarvi. Certo, è necessario senz'altro ammodernarle prima».
http://www.wikio.it

sabato 24 maggio 2008

Scorie: 250mila tonnellate radioattive

Liberazione, 24 maggio 2008
Scorie: 250mila tonnellate radioattive

Quello delle scorie è il vero "collo di bottiglia", ma anche la gallina dalle uova d'oro, dell'intero ciclo del combustibile nucleare. Certo, esistono scorie e scorie. A bassa attività (guanti, filtri liquidi, indumenti usati nelle installazioni nucleari), a media attività (scarti di lavorazione, rottami metallici, liquami) e i rifiuti altamente radioattivi (un reattore medio ne produce ogni anno circa 30 tonnellate). Le prime due restano pericolose per circa 300 anni, le ultime, che pur essendo solo il 3% del totale rappresentano il 95% della radioattività, manterranno la loro carica mortale per 250/300 mila anni.
E le quantità prodotte inducono più di un timore. Stando ai dati Aiea (l'agenzia mondiale per l'energia atomica) nel mondo ci sono oltre 250 mila tonnellate di scorie altamente radioattive, prodotte da 440 reattori presenti in 31 Stati, in attesa di essere sistemate nei siti di stoccaggio (primi in classifica, gli Usa con oltre 40 mila, seguiti da Francia e Giappone, con 8 e 7 mila). La cifra, secondo l'Aiea, salirà a 400 mila tonnellate entro il 2015 e raggiungerà il milione entro il 2050. Numeri enormi, come enormi sono i costi per la conservazione: secondo stime della metà degli anni 90, solo per incapsularle e porle in sicurezza si spenderanno negli Usa 110 miliardi di dollari.
L'Italia invece (grazie al referendum del 1987) non ha grandi quantità di scorie. In un'audizione parlamentare, l'ex presidente della Sogin, generale Carlo Jean, ha dichiarato che nel nostro Paese giacciono 50mila metri cubi di rifiuti di I e II categoria e circa 8mila altamente radioattivi.
Ciò che accomuna tutti i Paesi con rifiuti nucleari è il dilemma dello stoccaggio. Due sono le tipologie di depositi: quelli ingegneristici (celle in cemento armato, realizzate in superficie o a livello immediatamente sub-superficiale) e i depositi geologici. Solo questi ultimi, costruiti in profonde cavità, sono idonei per le scorie più radioattive. E al mondo
sono pochissimi.
Gli Usa hanno ad esempio deciso, a febbraio 2002, dopo ricerche iniziate nel 1955, di concentrare tutte le scorie in un unico deposito, che sarà costruito in Nevada sotto lo Yucca Mountain (150 km da Las Vegas). Nei suoi tunnel saranno conservate, in oltre 11mila contenitori, 70mila tonnellate di scorie. Un'opera faraonica e costosissima (7 miliardi di dollari spesi solo per progetto e analisi geologica, altri 58 miliardi serviranno per la costruzione). Ma su questa collocazione sono sorti problemi che potrebbero preludere a un ripensamento.
Emanuele Isonio

Ritorno al nucleare? Indietro tutta

Liberazione, 24 maggio 2008
Storie false e vecchie. Nessuna novità reale
Ritorno al nucleare? Indietro tutta

Gianni Mattioli e Massimo Scalia
Del programma nucleare del governo lanciato con gran clamore di media dal ministro Scajola una cosa positiva si può dire: ha rinunciato a pensare di fare le centrali in Albania, come invece durante la campagna elettorale un fronte bipartisan aveva "virilmente" proposto.
Il programma segue quasi pedissequamente quanto aveva proposto pochi giorni fa l'ad di Edison, Quadrino, in un intervento al Politecnico di Milano. Scontato quindi il plauso di Confindustria, ma l'emozione di Marcegaglia per la sua prima uscita ufficiale non ci fa dimenticare l'ipocrisia di un sistema produttivo che per bocca dei padroni ha pianto per anni gli elevati costi dell'energia, mentre poco o nulla faceva per migliorare l'efficienza energetica di prodotto e di processo.
Come valutare nel merito il programma proposto? Purtroppo il dibattito sul nucleare è ripetitivo, gli argomenti sono sempre gli stessi da oltre vent'anni. E una ragione c'è. Se la Fisica non si inventa qualche cosa di veramente nuovo che rivoluzioni i concetti che stanno alla base del funzionamento di un reattore e investano tutto il ciclo del combustibile nucleare fino alle scorie radioattive, l'ingegneria degli impianti nucleari può apportare solo qualche miglioramento che non sarà in grado di risolvere i problemi che il nucleare ha dalla sua nascita: sicurezza, contaminazione radioattiva, gestione delle scorie più pericolose e di tempi lunghissimi. Ah già, la piccola questione della proliferazione delle armi atomiche, quale ci viene quotidianamente ricordata da Ahmadinejad alle cui spalle sorride sornione Putin.
Questo era bene metterlo subito in chiaro, perché nel linguaggio accomodante o plaudente della grande stampa si finge di prendere per buono, o si prende proprio per buono, che il programma di Scajola-Quadrino abbia a che vedere con reattori innovativi e più sicuri, con il mitico consorzio Generation IV , nel suo porre la "prima pietra" al 2013 per centrali nucleari funzionanti nel 2019.
Allora bisognerà ancora una volta ricordare che questo consorzio, costituitosi nel 2000 per il rilancio del nucleare e al quale il precedente governo Berlusconi non trovò in cinque anni il tempo di aderire, prevede un prototipo industriale non prima del 2025 per una commercializzazione al 2030. Quindi i reattori nucleari di Scajola-Quadrino sono, se va bene, quelli di terza generazione (gli europei Epr). L'unico in costruzione di questa filiera è Olkiluoto 3 in Finlandia e sui primi due anni ha già accumulato il ritardo di un anno, imposto dai doverosi controlli dell'ente di sicurezza, e fruisce di finanziamenti agevolati francesi e di un prestito a tassi di favore di circa tre miliardi di euro dalla Deutsche Bank. Agevolazioni, incentivi pubblici e ritardi nella costruzione: è il dejà vu delle centrali nucleari.
In ogni caso che siano gli europei Epr o gli americani Ap1000, le innovazioni di questi reattori consistono essenzialmente nel tener conto, con circa trent'anni di ritardo, dell'incidente di Three Miles Island. Ma sono anche sufficienti a rivedere in meglio le stime di probabilità sull'incidente catastrofico che i convegni dell'Agenzia delle Nazioni Unite per l'Energia Atomica di Roma e di Columbus (Ohio) del 1985? Lasciamo perdere quello che con compiacente eufemismo viene chiamato "rischio residuo". Per la terza generazione i problemi restano quelli che abbiamo già elencati. E per la quarta generazione è il premio Nobel Carlo Rubbia a giudicare insufficiente il programma. Del resto lui ci aveva provato negli anni 90 con il suo " energy amplifier ", un reattore sottocritico al Torio che affrontava in modo nuovo la questione della sicurezza, si presentava come non proliferante e riduceva il problema delle scorie a "solo" varie centinaia di anni. Ma non si è andati mai al di là di qualche articolo di ricerca scientifica.
E torniamo nel regno della ripetitività. Quanto dura l'Uranio? Lo studio ad hoc dell'Aiea presentato nel 2001 valutava in 35 anni le riserve di Uranio fissile. E dopo? E prima, quando dovrebbero vagire i reattori della quarta generazione, guerre per l'Uranio come quelle per il petrolio?
Quanto costa il kWh nucleare? Anche non contabilizzando gli incentivi, i 5,3 cent di euro dichiarati dalla Francia o i 6,1 stimati dal DoE (Usa) al 2010 la rendono un'energia così a buon mercato? A meno che Marcegaglia e Quadrino non abbiano come consulente Piero Angela, che in un suo Superquark sparava per il kWh nucleare un vergognoso 2 cent. Quadrino poi giurava in un'intervista a Repubblica che i suoi cinque reattori non avrebbero richiesto denaro pubblico. Un vero mago! Pensare che quel pezzente di Crane, l'ad dell'azienda elettrica americana Exelon, affermava che i due reattori che rompono il lungo digiuno di ordinativi interni degli States (dal 1978!) non vedrebbero la luce senza gli incentivi varati da Bush nel 2005 per il nucleare.
Il nucleare si ripropone con tutti i suoi argomenti, invecchiati oltre che falsi. In un Paese in cui il bassissimo livello medio di cultura scientifica può far pensare al trentenne o quarantenne di oggi che il nucleare sia una scelta di progresso, come gli "atomi per la pace" che negli anni '50 cercavano di far dimenticare, e con successo, il fungo atomico di Hiroshima. Così mentre la potenza degli impianti eolici sta decollando in tutto il mondo a ritmi vertiginosi seguita dalle varie tecnologie solari, governo Berlusconi e Confindustria ci vorrebbero regalare un ulteriore ritardo rispetto alla "rivoluzione energetica" dei tre 20% - riduzione della CO2, riduzione dei consumi energetici in virtù di una maggiore efficienza, copertura del fabbisogno con fonti rinnovabili - che sono obiettivi vincolanti per tutta l'Europa. Qualcuno vorrebbe fare affari e soldi su qualche appalto che poi non avrebbe seguito e noi dovremmo continuare a importare le tecnologie della sfida del XXI secolo da Germania, Spagna, Francia e Danimarca?
C'è spazio per una grande battaglia, quella della sostenibilità e di un modello economico, sociale e culturale diverso, proprio a partire dalle scelte energetiche. Una battaglia che si può vincere.


24/05/2008

Ancora non esiste un sistema per calcolare tutti i costi ambientali

Liberazione, 24 maggio 2008
Ancora non esiste un sistema per calcolare tutti i costi ambientali
Un impianto dura
tra 100 e 150 anni

Sergio Zabot*
Per valutare correttamente il costo di un kWh prodotto con diverse fonti è necessario ricorrere al Life Cycle Assessment (Valutazione del Ciclo di Vita), che altro non è che un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici ed ambientali e degli impatti potenziali associati a un prodotto/processo/attività lungo l'intero ciclo di vita, dall'acquisizione delle materie prime al fine vita. Ora, il ciclo di un impianto nucleare varia tra i 100 e i 150 anni. Ciò significa che un impianto concepito ora entrerà in esercizio, diciamo, tra 20 anni; poi funzionerà per 60; quindi inizierà lo smantellamento con tutte le attività conseguenti per almeno altri 20, per poi confinare definitivamente i residui e bonificare il sito. Nel frattempo ad ogni cambio di combustibile (diciamo una volta all'anno) quello esausto, che poi esausto non è, deve essere raffreddato in piscina per 10 anni, poi ritrattato e infine messo a dimora definitiva, sempre che tra 20 anni sia stato identificato e approntato un sito definitivo geologicamente stabile (almeno per quanto riguarda l'Italia).
Tutto questo vuol dire che, per sapere ora quanto costa un kWh prodotto con l'energia nucleare, bisognerebbe sapere quanto costerà raffreddare, ritrattare, condizionare, confinare definitivamente il combustibileesausto anno per anno, da qui a 80 anni, e quanto costerà, sempre tra 80 anni e per i successivi 20, lo smantellamento e il confinamento di tutti i residui delle centrali ovvero il decommissioning , inclusa la bonifica del luogo in cui sorge l'impianto. Solo così si può ragionevolmente pensare di accantonare le risorse che saranno necessarie tra 80 anni e non lasciare quindi "debiti ingombranti" ai nostri nipoti.
Oltre a questo, occorre poter stimare le cosiddette esternalità ambientali (definite come costi non sostenuti direttamente dai soggetti responsabili dei danni ambientali). Rappresentano pertanto costi a carico della collettività e non dei soggetti economici che svolgono l'attività che li ha provocati. L'esempio tipico è l'inquinamento dell'aria, che danneggia l'intera collettività e i cui costi sono sostenuti solo in minima parte dagli inquinatori. Una scelta economica ottimale, oltre a considerare i costi e i ricavi di una data impresa, dovrebbe consentire di internalizzare i costi sociali (esternalità) non altrimenti considerati.
La possibilità di far rientrare nel normale calcolo di ogni attività economica anche i costi ambientali si scontra con la difficoltà di quantificare e monetizzare le esternalità. A partire dagli anni ‘80 sono stati avviati studi persuperare tali difficoltà e permettere così agli operatori economici e ai decisori politici, di includere le esternalità nelle scelte politico-economiche.
Nel 1991 la Commissione Europea insieme al DoE statunitense ( Department of Energy ) ha avviato un programma di ricerca denominato ExternE che si è affermato come studio di riferimento per le esternalità legate all'inquinamento atmosferico dovuto a combustione per produzione di energia e trasporti. ExternE tuttavia analizza e valuta gli effetti dell'uso dei combustibili fossili e non risulta che nessun studio sia ancora stato avviato per l'equivalente valutazione del ciclo dell'energia nucleare.
*Ingegnere, direttore Settore energia
Provincia di Milano


24/05/2008

Avete presente il pesce con tre occhi che sguazza nel lago contaminato dalla centrale nucleare dei Simpson? Sostituite all'animale esseri umani in car

Liberazione, 24 maggio 2008
Avete presente il pesce con tre occhi che sguazza nel lago contaminato dalla centrale nucleare dei Simpson? Sostituite all'animale esseri umani in carne e ossa, ai tre occhi una mano con sette dita, ai cartoni animati la vita reale e avrete il quadro delle conseguenze dell'estrazione dell'uranio

Avete presente il pesce con tre occhi che sguazza nel lago contaminato dalla centrale nucleare dei Simpson? Sostituite all'animale esseri umani in carne e ossa, ai tre occhi una mano con sette dita, ai cartoni animati la vita reale e avrete il quadro delle conseguenze
dell'estrazione dell'uranio. Una pratica sempre più redditizia (il suo prezzo - vedi tabella qua sopra - è aumentato del 1300% in quattro anni passando da 10 a 135 dollari a libbra) ma letteralmente devastante per chi lo deve estrarre o vive vicino a una miniera. «L'estrazione dell'uranio comporta gravi conseguenze sanitarie per i lavoratori ed enormi pericoli ambientali - spiega Roberto Della Seta, ex presidente di Legambiente - i principali danni alla salute sono causati dal radon, un gas radioattivo, prodotto dal decadimento dell'uranio, ma soprattutto dalla radioattività del minerale che è in grado di contaminare l'ambiente anche a chilometri di distanza».
Ne sanno qualcosa i Navajos negli Usa e gli abitanti di Jadugoda in India. Negli anni 50 fra i minatori statunitensi erano molti gli indiani d'America, nelle cui riserve si trovavano i giacimenti: in vent'anni (dal 1970 al 1990) il loro tasso di mortalità per cancro è raddoppiato
e l'età media di una popolazione tra le più longeve si è ridotta a 43 anni. Tanto che nel 1990 il governo federale ha approvato una legge per risarcire i danni ai minatori o ai loro eredi, talmente complicata che pochi potranno accedervi. Alle pendici dell'Himalaya, gli abitanti di Jadugoda vivono una situazione tragicamente analoga. Tutta colpa dell'enorme miniera, profonda ormai 905 metri, che dal 1967 garantisce al Paese un posto nell'Olimpo nucleare: bimbi con sette dita o senza mani, crani mostruosamente grandi o minuscoli, donne sterili o che partoriscono feti morti (e per questo sono ripudiate dai mariti), percentuali abnormi di leucemie, patologie alle vie respiratorie. Uno scenario sanitario impressionante, trasformato in uno sconvolgente video ("Buddha piange a Jadugoda", del regista indiano Shriprakash), premiato al Global Environment Film Festival di Tokyo del 2000.
Em.Is.


24/05/2008

Come 'italiano' e come esponente della Curia vaticana, il card.Martino ha benedetto la scelta del governo Berlusconi di tornare al nucleare

(ANSA) - ROMA, 23 MAG - Come 'italiano' e come esponente della Curia vaticana, il card.Martino ha benedetto la scelta del governo Berlusconi di tornare al nucleare. 'Parlando da cittadino dico che la decisione del governo di tornare al nucleare e' conveniente. Parlando da cardinale ricordo che la Santa Sede e' uno dei fondatori dell'Aiea, che si propone di promuovere l'uso pacifico dell'energia atomica', ha spiegato il porporato, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace. La decisione del governo e' conveniente 'perche' l'Italia - spiega Martino - compra a caro prezzo l'energia prodotta con centrali nucleari dai Paesi confinanti'. Inoltre 'quel timore originato dal disastro di Chernobyl che fu alla base del referendum del 1987 dovrebbe ora scomparire, dato che le centrali di oggi sono molto piu' perfezionate e moderne di quelle dell'epoca di Chernobyl, la cui esplosione, va ricordato, fu causata da un errore umano'. 'Gli italiani vanno costruendo centrali nucleari per il mondo. Ora perche' - si chiede - non dovrebbero mettere le loro capacita' a servizio del proprio Paese?'. (ANSA).

S.Sede benedice la scelta sul nucleare

da ansa.it
2008-05-23 21:53
S.Sede benedice la scelta sul nucleare
CITTA' DEL VATICANO - Trova plausi in Vaticano la scelta del governo Berlusconi di tornare al nucleare. A benedirla, con una punta di soddisfazione, è il card. Renato Raffele Martino, presidente del pontificio consiglio Giustizia e Pace. "Parlando da cittadino italiano - ha affermato all'ANSA il porporato - dico che la decisione del governo di tornare al nucleare è quanto mai conveniente. Parlando da cardinale ricordo che la Santa Sede è uno dei membri fondatori dell'Aiea, l'agenzia internazionale dell'energia atomica, che si propone di promuovere l'uso pacifico dell'energia nucleare". Spiega Martino, uno degli uomini di curia dalla più ampia esperienza internazionale, ex osservatore permanente della Santa Sede presso l'Onu, che la decisione del governo è conveniente perché "l'Italia compra a caro prezzo l'energia elettrica prodotta con centrali nucleari dai Paesi confinanti con il nostro". Vanno poi superati, "quei timori nei confronti delle centrali atomiche originati dal disastro di Chernobyl e alla base del referendum del 1987" alla luce delle "nuove e molteplici ragioni" di oggi. Le attuali centrali nucleari sono, infatti, "molto più perfezionate e moderne di quelle dell'epoca di Chernobyl, la cui esplosione - ricorda Martino - fu comunque causata da un errore umano". E poi, si chiede il porporato -facente funzioni anche di 'ministro' dell'Ambiente vaticano - "gli italiani vanno costruendo centrali nucleari per il mondo. Perché non dovrebbero mettere le loro capacità a servizio del proprio Paese?". Tanto più che "le centrali italiane, dopo il referendum, non sono state del tutto dismesse e c'é ancora del qualificato personale che le mantiene e che ora potrà tornare a lavorarvi. Certo, è necessario senz'altro ammodernarle prima". Il Vaticano ha sempre apprezzato l'uso della "tecnologia nucleare per un autentico sviluppo, rispettoso dell'ambiente e sempre attento alle popolazioni più svantaggiate". Benedetto XVI lo ha ricordato il luglio scorso proprio in occasione dell'anniversario dell'entrata in vigore, cinquanta anni fa, dello statuto dell'Aiea. Organizzazione istituita, secondo le parole del Papa, "con il mandato di sollecitare ed accrescere il contributo dell'energia atomica alle cause della pace, della salute e della prosperità in tutto il mondo", e di cui la Santa Sede quale "membro fondatore", "ne approva pienamente le finalità e ne sostiene l'attività". Una posizione , quella sul nucleare per scopi civili, che ha consentito alla Santa Sede di tendere una mano anche all'Iran, le cui ambizioni di sviluppo del programma atomico allertano il mondo. "Sì all'uso pacifico del nucleare certamente anche per l'Iran", aveva dichiarato Martino nell'ottobre scorso, spiegando che l'energia atomica "é qualcosa che può fare del bene all'umanità" e se da un lato c'é la necessità di "difendere la pace e la sicurezza", dall'altro "va promosso lo sviluppo dei popoli".

Nucleare - Le pericolose promesse

Nucleare - Le pericolose promesse
Vittorio Cogliati Dezza*
23 maggio 2008, IL MANIFESTO

Il ministro Scajola ieri, all'assemblea di Confindustria, si è impegnato senza ambiguità: «entro questa legislatura porremo la prima pietra per la costruzione di centrali nucleari di nuova generazione». Ma il ministro Scajola fa una banale errore lessicale. Le centrali «di nuova generazione» non ci sono e se ci saranno sarà dopo il 2025. Forse intendeva le centrali attuali, che dovrebbero cominciare ad andare in dismissione nei prossimi anni?
Il ministro Scajola fa anche un altro errore quando sostiene che le centrali nucleari sono «sicure e competitive».
Sicure? Nessuno dei problemi che spinsero gli italiani a bocciare il nucleare 20 anni fa è stato risolto: non il rischio d'incidenti, non lo smaltimento in sicurezza delle scorie, non lo smantellamento degli impianti in disuso, né la loro protezione da eventuali attacchi terroristici. La storia del nucleare è costellata da una lunga lista di gravi incidenti, da quello di Three Mile Island nel 1979 negli Usa a quello di Mihama nel 2004 in Giappone. In Europa, dopo la catastrofe di Cernobyl, a Temelin nella Repubblica Ceca negli scorsi anni si è verificata una serie di incidenti che hanno messo in allarme la vicina Austria. Per non parlare delle scorie. Si calcola che 250mila tonnellate di rifiuti radioattivi nel mondo siano in attesa di stoccaggio. Esistono circa 80 depositi «provvisori» nel mondo, ma non ancora un sito di stoccaggio definitivo. C'è poi lo smantellamento delle centrali una volta spente, processo delicato e oneroso, che comporta rischi altissimi per la sicurezza.
Competitive? Sarebbe corretto considerare nel costo tutto il ciclo, dalla progettazione allo smaltimento delle scorie e delle centrali. Negli Usa, dove i produttori sono tutti privati, non si mette in cantiere un impianto dalla fine degli anni 70 e oggi, nel mondo, solo la Finlandia sta costruendo un nuovo reattore, che ha già visto decollare i costi del 35%. Inoltre, la Energy Information Administration degli Stati uniti afferma che l'elettricità proveniente da una nuova centrale nucleare è più costosa del 15% rispetto a quella prodotta per il gas naturale e nel computo economico non sono considerati né i costi di smaltimento delle scorie né lo smantellamento dell'impianto alla fine del ciclo vita. Non è un caso che l'Aiea calcola che il contributo dell'atomo al fabbisogno mondiale di energia scenderà dal 15% al 13% entro il 2030.
C'è molta ideologia dietro l'impegno del ministro. Dobbiamo interpretare tutto ciò come il nuovo articolo 18 del Berlusconi 4? Noi ci opporremo. A cominciare dal 7 giugno, giorno in cui una vasta alleanza di associazioni e sindacati ha indetto una manifestazione nazionale a Milano e insieme ci metteremo «In marcia per il clima», contro il nucleare, per alternative migliori.

*Presidente di Legambiente

Il ritorno dell'atomo. Scajola: «Centrali nucleari entro cinque anni»

Il ritorno dell'atomo. Scajola: «Centrali nucleari entro cinque anni»
Carlo Lania
23 maggio 2008, IL MANIFESTO

Il ministro dello Sviluppo economico all'assemblea di Confindustria promette un ritorno all'energia atomica: «E' ora di voltare pagina». Critiche dagli ambientalisti. L'Enel apprezza: «Siamo pronti»

Roma

L'Italia riapre al nucleare. A ventuno anni di distanza dal referendum che sancì la chiusura delle quattro centrali esistenti all'epoca, nel nostro paese rispunta l'atomo. «E' ora di voltare pagina», ha annunciato ieri all'assemblea di Confindustria il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola promettendo entro i prossimi cinque anni un ritorno in grande stile alla produzione di energia nucleare. Prima di lui, era stata la neo presidente degli industriali Emma Marcegaglia a chiedere nuovi investimenti nel settore e il ministro non si fa certo pregare, sicuro di raccogliere il consenso della platea. La formulazione di un Piano per il ritorno al nucleare, dice infatti con un tono che suona abbastanza di rivalsa nei confronti del precedente governo, «non è più eludibile» perché «solo queste centrali consentono di produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente». Da qui la promessa: «Entro questa legislatura porremo la prima pietra per la costruzione di una centrale nucleare di nuova generazione».
Era solo questione di tempo, ma l'intenzione del centrodestra di tornare all'atomo era più che risaputa. La sorpresa, semmai, è nei tempi stretti scelti per l'annuncio e a cui sicuramente non sono estranei i continui rincari del prezzo dell'energia. I tecnici del ministero, del resto, hanno già realizzato uno studio sulla possibilità di cominciare i lavori entro i cinque anni promessi. E ora sono al lavoro per mettere a punto una road map che detterà i prossimi passi in modo da arrivare, per l'appunto entro il 2013, all'apertura dei cantieri per uno o più impianti nucleari. «Sul numero bisogna vedere - spiegano al ministero - Scajola ha parlato di alcune centrali, quante esattamente si vedrà».
Tre i punti sui quali il governo deve intervenire come prima cosa, e riguardano gli aspetti normativi, amministrativi e tecnologici del progetto. Per riaprire la via italiana al nucleare potrebbe essere sufficiente un atto di indirizzo da parte del governo. Dal punto di vista tecnologico, invece, l'esempio a cui si guarderebbe è la centrale di terza generazione in costruzione a Okiluoto, in Finlandia. Si tratta di un reattore europeo pressurizzato ad acqua, il primo di questo tipo, che in teoria dovrebbe offrire - assicurano al ministero - maggiori garanzie anche per quanto riguarda la sicurezza. Tutto da vedere, invece, il capitolo relativo ai costi. L'impianto di Okiluoto, ad esempio, dovrebbe costare 700 milioni di euro, tutti a carico delle aziende che poi gestiranno l'energia prodotta. Il budget, però, sarebbe già stato superato.
La volontà del governo è comunque quella di trasformare l'Italia in una paese produttore di energia atomica, al pari di Francia Germania. «Noi siamo pronti», ha detto ieri l'amministratore delegato dell'Enel Fulvio Conti, per il quale il tempo della legislatura può davvero bastare per avviare i lavori a patto che ci sia «un quadro normativo aggiornato e una forte spinta di condivisione al progetto da parte del territorio». D'accordo sui tempi anche Giancarlo Aquilanti, responsabile della task force nucleare dell'Enea: «Dal primo getto di calcestruzzo all'esercizio commerciale di ciascun impianto sono prevedibili tempi dell'ordine di 54 mesi», spiega Aquilani, che non manca però di sottolineare come per avviare un piano energetico «credibile» siano necessarie almeno sei centrali.
L'ipotesi di un ritorno al nucleare non piace agli ambientalisti. Critiche arrivano da Legambiente, ma anche da Greenpeace per la quale l'annuncio di Scajola «suona come dichiarazione di guerra. Riaprire al nucleare - dice l'associazione - è inaccettabile». In totale disaccordo con il ministro anche Paolo Bonelli dei Verdi, per il quale «il nucleare è una scelta sbagliata perché è antieconomica, vecchia e pericolosa. Saremo pronti a proporre un nuovo referendum come abbiamo fatto oltre 20 anni fa».
Critiche anche dal Pd (al cui interno non manca una corrente filo-nucleare) dal quale arriva il no secco di Ermete Realacci: «Pensare di portare entro cinque anni il nucleare in Italia - spiega il ministro ombra dell'Ambiente - è qualcosa di ideologico, una battaglia come quella per l'articolo 18 che sappiamo bene come è andata a finire».

Il prezzo insostenibile del nucleare

Il prezzo insostenibile del nucleare
C. L. D. B.
23 maggio 2008, IL MANIFESTO

La fissione costa al kwh più del gas e del carbone. Esclusi ovviamente i danni ambientali

La produzione di energia elettrica tramite fissione nucleare costa tanto. Anche se i fautori del nucleare mettono l'accento sui bassissimi costi operativi, a questi, vanno però aggiunti gli esorbitanti costi di costruzione, di smantellamento e di gestione delle scorie radioattive. Senza contare gli «altri costi» non quantificabili, come quelli ambientali ed energetici.
Infatti una centrale nucleare difficilmente può entrare in funzione prima di dieci anni, e nel frattempo di energia, invece che produrne, ne consuma. Se il «piano Scajola» andrà in porto, quindi, di benefici per l'Italia, se di benefici si potrà parlare, se ne vedranno a partire dagli anni venti del Duemila. Nel frattempo, si continuerà a subire le bizzarrie del mercato petrolifero, con l'incognita assoluta sul prezzo che avrà l'uranio allora. Una centrale ha anche bisogno, per funzionare, di considerevoli quantitativi d'acqua, e di questi tempi non è cosa da poco. La scelta del luogo di costruzione poi, soprattutto in Italia, pone forti interrogativi, specie in tempi di «arresto per chi protesta». Dubbi anche sul rispetto della democraticità nello smaltimento delle scorie radioattive, in particolare dopo l'imposizione del segreto di stato su tutto ciò che riguarda il nucleare, tra gli ultimi atti del governo Prodi.
Ma anche escludendo questi costi da «esternalità», la situazione non è affatto così rosea per il nucleare, soprattutto dal punto di vista economico. Per costruire un reattore da mille megawatt, secondo un calcolo del Mit (Massachussets Institute of Technology), servivano nel 2003 circa due miliardi di dollari. Greenpeace cita il Doe, ministero per l'energia statunitense, che stima i costi di produzione dell'energia nucleare, con nuovi impianti, in 6,33 centesimi di dollari per ogni chilowatt (kwh). Produrre con il carbone ne costa 5,61, mentre con il gas, che è il metodo più economico, ne costa 5,52. L'eolico, ancora inefficiente, costa più del nucleare: 6,8 centesimi al kwh. A questi costi per la fissione tuttavia, va aggiunto un sussidio governativo di 1,8 centesimi/kwh, innalzando il costo di produzione «reale» a più di 8 centesimi complessivi. Inoltre, va anche sommato il necessario per lo smantellamento, o decommissioning della centrale, cifra difficilmente quantificabile a priori, ma di certo significativa. Il costo oscillerebbe dai 500 milioni ai 2,6 miliardi di dollari per i reattori più sofisticati: praticamente quanto il costo di costruzione di una centrale nuova di zecca.
Insomma, sembra chiarissimo il motivo per cui di centrali nucleari, al mondo, se ne costruiscono davvero poche: conti della serva alla mano, non conviene, anche in tempi di petrolio alle stelle. Su oltre 358 mila Mwe (Megawatt electric) di capacità complessiva mondiale, le nuove centrali in costruzione aggiungerebbero solo 18 mila Mwe. Ottomila di questi vengono però da Cina, India e Corea del Sud, «tigri» asiatiche affamatissime di energia. Gli Stati uniti hanno in costruzione solamente mille megawatt, contro i 100 mila attualmente in esercizio.

LIGURIA - Nucleare pronto in cinque anni

LIGURIA - Nucleare pronto in cinque anni
COSTANTINO MALATTO
24 maggio 2008, LA REPUBBLICA - GENOVA

Zampini (Ansaldo Energia): la nostra tecnologia già esportata in tutto il mondo

Gambardella: "Con la chiusura della divisione Genova iniziò la sua fase calante"

"Dateci e permessi e il sito e nel giro di sessanta mesi consegniamo l´impianto finito"

«Noi siamo pronti» assicura l´amministratore delegato di Ansaldo Energia, Giuseppe Zampini. Se davvero il nucleare in Italia potrà ripartire, conferma il manager del gruppo Finmeccanica, a Genova ci sono le professionalità, le competenze e le strutture per realizzare le centrali nucleari di cui ci sarà bisogno. In quanto tempo? «Dipende naturalmente da alcuni fattori - risponde Zampini - il primo dei quali è la capacità dell´impianto. Per una centrale media, da circa 1.000 megawatt, il tempo previsto di realizzazione è di cinque anni». Lo stesso periodo di cui ha parlato il ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola. Suscitando le perplessità di molti addetti ai lavori. Cinque anni non sono pochi, ingegner Zampini? «Niente affatto - replica il manager, alla cui società fa capo Ansaldo Nucleare Spa - Da quando avremo tutti i permessi, l´identificazione del sito e quella della discarica per le scorie, nel giro di sessanta mesi siamo in grado di consegnare la centrale funzionante. Quella di Cernovoda, in Romania, che abbiamo realizzato insieme ad Atomic Energy of Canada Limited (Aecl), l´abbiamo realizzata in 54 mesi».
A più di vent´anni di distanza dallo smantellamento dell´industria nucleare, Genova si pone dunque di nuovo come possibile "capitale del nucleare", ruolo che aveva ricoperto fino al momento in cui il referendum, e soprattutto le scelte del governo De Mita, avevano messo la parola fine alle attività in Italia. Una crisi industriale di proporzioni gigantesche. Perché si veniva a sommare a quelle del porto e della siderurgia. «Fu con la chiusura della divisione nucleare dell´Ansaldo - ricorda Giovanni Gambardella, che di quell´industria era stato amministratore delegato nel momento dello sviluppo - che Genova cominciò davvero a precipitare per la china della crisi industriale. La scomparsa di Ansaldo Nucleare provocò la perdita di un sistema tecnologico ancora più ampio di quello nucleare».
Bisogna infatti rammentare che nel 1986 lavoravano in Ansaldo Energia circa 15.000 dipendenti, la metà dei quali addetta, direttamente o indirettamente, al nucleare. Nel giro di un paio d´anni queste 7.500 persone si trovarono a dover cambiare lavoro. La prima fase seguì immediatamente il referendum e fu meno drammatica: «Non si pensava che il nucleare sarebbe stato chiuso del tutto - ricorda un dirigente di allora, che preferisce restare anonimo - e dunque si cercò di attuare le azioni che avrebbero permesso di reggere l´urto negativo del referendum. In quel momento, però, Gambardella andò in Finsider e una buona parte del suo gruppo dirigente preferì seguirlo nella sua avventura nell´industria siderurgica. Inoltre furono bloccate le nuove assunzioni, dunque l´azienda si trovò con il gruppo dirigente decapitato e senza forze giovani».
Ma la mazzata definitiva arrivò l´anno dopo, quando il governo De Mita decretò la chiusura immediata delle centrali nucleari. In Ansaldo erano appena state costruite le turbine per la centrale di Trino Vercellese ed erano in costruzione quelle per Montalto di Castro. Le due belle turbine già pronte furono impacchettate, nel vero senso della parola, e anni dopo finirono in una centrale dell´Asia. Nell´azienda nucleare cominciò il "si salvi chi può". Con costi altissimi sia in termini occupazionali sia di costi per il "sistema paese". È stato calcolato che l´abbandono del nucleare sia costato alle classe pubbliche, dunque ai cittadini, qualcosa come 20 miliardi di euro.
Oggi Scajola dice che si può riprendere la strada interrotta in modo traumatico vent´anni fa. «Ma non si può far finta che questo tempo non sia passato - dice Gambardella - È giusto tornare al nucleare, ma in un´ottica diversa. E questa deve essere quella europea. Devono essere europee le regole e le tecnologie. Russia e Cina possono essere mercati importanti, ma la tecnologia deve venire dall´Europa. Genova può tornare ad essere la capitale del nucleare, ma ci vorrà tempo. Il nucleare è una realtà complessa, che presuppone preparazione e unità di intenti».

PUGLIA - Nucleare, anche la Regione dice no

PUGLIA - Nucleare, anche la Regione dice no
PIERO RICCI
24 maggio 2008, LA REPUBBLICA - BARI

Losappio: "Noi puntiamo sull´eolico". La rivolta di tre città

L´ipotesi del governo viene bocciata ad Avetrana, Nardò e Mola

No al nucleare. Regione Puglia pronta alle barricate contro la possibilità che siano localizzate in Puglia alcune delle centrali nucleari che il ministro delle attività produttive vuole cominciare a realizzare «in questa legislatura». L´assessore regionale all´Ambiente, Michele Losappio, brucia tutti sul tempo, governatore compreso, per impugnare la bandiera antinucleare: «La Puglia è in credito verso l´Italia per una produzione energetica così elevata che le consente di trasferirne l´82% al resto del Paese. In tale situazione consideriamo improponibile che il Governo Berlusconi possa chiedere ai pugliesi un ulteriore e così pesante sacrificio».
La dichiarazione di Losappio, in realtà, è uno squillo di tromba per i sindaci dei comuni pugliesi che potrebbero essere interessati alla svolta nucleare: da Avetrana a Nardò, passando per Manduria e finendo a Mola di Bari. «Con il piano energetico ambientale - dice Losappio - la Regione ha fatto un´altra scelta, quella di investire sulla frontiera delle energie rinnovabili e la sta praticando in modo del tutto convincente. Sarebbe necessario - conclude l´assessore - che i sindaci dei Comuni coinvolti esprimano la propria posizione e chiariscano all´opinione pubblica ed al Governo il proprio pensiero».
Da Mola di Bari, quello di Nicola Berlen, alla guida di una giunta di centrosinistra, è quasi immediato: ««Non vogliamo fare barricate ma le idee sono chiare comunque e lunedì prossimo in consiglio comunale, anche se si parlerà di bilancio, porrò la questione. Per noi - aggiunge - è una doccia fredda, un salto nel vuoto. Le politiche si costruiscono non si annunciano. Siamo disposti a dialogare, questo sì ma si sappia che così facendo hanno aperto un altro fronte: saremo guardinghi e franchi ma questo è un modo sgradevolissimo di porsi e saremo pronti a qualunque civile evenienza».
Nel Salento, i tre comuni interessati (Nardò, Avetrana e Manduria) saranno anche guidati da amministrazioni di colore politico diverso, ma sull´argomento la pensano allo stesso modo. «È un´offesa per un territorio che ha fatto una scelta sul turismo», afferma il primo cittadino neretino, Antonio Vaglio. «Ma sanno che lì, dove vogliono fare la centrale, c´è un´area Sic e l´Unione europea non si fa spostare nemmeno una pietra?», si chiede il sindaco di Manduria, Francesco Massaro che si sente "protetto" dal riconoscimento dell´area come sito di interesse comunitario. Così il primo cittadino di Avetrana, Mario De Marco, quota Pdl: «Troppo tardi, questo territorio da tempo ha già fatto altre scelte. Una centrale qui, oggi, è una contraddizione con la vocazione turistica dell´area».
A incrinare il fronte del no, alla Regione è Forza Italia: «Il nucleare di nuova generazione è l´unica soluzione ai problemi energetici europei e italiani - dice Rocco Palese - ma nessuno pensa di far piovere dal cielo le centrali. Sulla loro localizzazione delle sarà ovvio parlarne con gli enti locali». Immediata la replica di Losappio: «Prendiamo atto - dice l´assessore pugliese - che Palese è favorevole alle centrali nucleari. Ci indichi almeno dove localizzarla».

Ecco il piano nucleare dell´Enel Quattro centrali e lo stoccaggio entro il 2020.

Ecco il piano nucleare dell´Enel Quattro centrali e lo stoccaggio entro il 2020.
MARCO PATUCCHI
24 maggio 2008, LA REPUBBLICA

A giorni il progetto al governo

Per la gestione anche l´opzione del consorzio con le altre aziende produttrici

ROMA - Quattro centrali di terza generazione che nel 2020 copriranno almeno il 10% dei consumi di energia in Italia, vale a dire 6000 megawatt, più il sito per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Un progetto gestito o dalla sola Enel o da un consorzio guidato dal gruppo pubblico e composto dalle altre aziende produttrici (Edison, Eni, Sorgenia, le ex municipalizzate...) e dalle industrie energivore. Il tutto in un quadro normativo certo e definito.
La "ricetta" dell´Enel per il ritorno al nucleare è ormai pronta: l´amministratore delegato del colosso elettrico, Fulvio Conti, la presenterà al governo nei prossimi giorni consegnando un piano articolato al quale i tecnici del gruppo lavorano ormai da qualche mese e che, ora, si inserirà nel solco dell´accelerazione impressa dal ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola. «Entro cinque anni la prima pietra delle nuove centrali nucleari italiane», è l´impegno del ministro annunciato giovedì all´assemblea di Confindustria, e il progetto dell´Enel stima una tabella di marcia teorica che si spalma su nove anni: due per l´allestimento del contesto normativo, due per l´iter delle autorizzazioni, quattro per la costruzione e uno da conteggiare per eventuali ritardi in corso d´opera.
La tecnologia indicata è quella del nucleare di "terza generazione migliorata", dal momento che i vertici dell´Enel non vedono prospettive temporali praticabili per le centrali di quarta generazione (quelle, per intenderci, che non produrranno scorie radioattive); verrebbe sfruttata al meglio, inoltre, la competenza tecnologica acquisita dagli uomini del gruppo nel corso degli ultimi anni al di fuori dall´Italia, ovvero in Slovacchia attraverso la Slovenske Elektrarne, in Spagna attraverso l´Endesa e in Francia con la partecipazione al progetto Epr.
Il piano si dispiega su tre livelli. Innanzitutto quello normativo, con la previsione di una legge delega che fissi il contesto nel quale poi collocare singoli provvedimenti su autorizzazioni e controlli. «Una legge - è la tesi espressa a più riprese da Conti - che, modificando il titolo V della Costituzione (ripartisce le competenze tra Stato ed enti locali, ndr) presenti a Comuni e Regioni un percorso ben definito. Si tratterebbe, in sostanza, di riportare le scelte strategiche al livello più alto della politica, cioè al Parlamento e non alla singola amministrazione locale, completando inoltre la filiera del nucleare con il collegamento a università e alla ricerca».
Il secondo livello del progetto riguarda l´identificazione delle zone del Paese dove dislocare le centrali e il sito per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Enel nel documento non fa nomi, lasciando la scelta ad una parte terza - dunque, governo e Parlamento - alla quale vengono comunque sottoposti i criteri classici di valutazione utilizzati a livello internazionale (rischi sismici e di esondazione, densità abitativa). In questo senso, la pole position spetterebbe ai territori che già ospitano impianti nucleari (quelli realizzati e poi disattivati dal referendum del 1987 - Latina, Trino, Garigliano, Caorso - o bloccati in corso d´opera, come Montalto), mentre per quanto riguarda il sito di stoccaggio delle scorie, i ragionamenti dei tecnici non escludono la scelta di un impianto provvisorio, lasciando inoltre sul tavolo sia l´opzione dell´interramento che quella del deposito in superficie.
Terzo livello, infine, sugli aspetti finanziari. Il piano non fissa una stima certa sul costo complessivo del progetto, mettendolo in relazione alle varie opzioni tecnologiche attualmente a disposizione dell´Enel: da quella nipponico-americana della Westinghouse (utilizzata in Spagna), a quella francese dell´Epr, a quella russa presente in Slovacchia. Stesso discorso per il problema delle coperture assicurative e delle formule di finanziamento. Un´aleatorietà finanziaria che caratterizza il piano di Enel, ma non il report diffuso ieri da Ubs: secondo la banca svizzera, l´approdo dell´Italia al nucleare entro il 2020-23 comporterebbe per il gruppo controllato dal ministero dell´Economia un aumento del valore nominale di 2 miliardi di euro ogni 1.000 megawatt di potenza installata. Vale a dire un beneficio di 0,1 euro ad azione per i soci Enel.

Ad Avetrana e Manduria anche nel 1982 un referendum disse no al progetto della centrale. Oggi l´opposizione è bipartisan
E la Puglia è già in trincea contro l´atomo

E il Vaticano si schiera a favore del nucleare: una scelta conveniente
PIERO RICCI


bari - Il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola sarà anche del Pdl come lui, ma per Mario De Marco, sindaco di Avetrana, non si tratta di essere contro il nucleare: «Qui una centrale avevano anche cominciata a costruirla. Era il 1982. Ci furono rivolte, manifestazioni, cortei, proteste anche un referendum, prima di quello nazionale. Dopo 26 anni il quadro è completamente cambiato e questa è diventata un´area a vocazione turistica: una centrale nucleare non ci sta proprio». Dalla sua parte non c´è nemmeno il conterraneo ministro degli Affari Regionali, Raffaele Fitto («Dire ‘no´ al nucleare 30 anni fa, fu una scelta sbagliata» dice Fitto, mentre anche il Vaticano, per bocca del cardinale Martino sposa la scelta dell´atomo), ma s´è già schierato il governatore pugliese, Nichi Vendola: «Quella del nucleare è una scelta perdente e conservatrice, dichiarata proprio mentre la Puglia ed altre Regioni stanno scegliendo la modernità, il cambiamento del ciclo produttivo attraverso quelle energie rinnovabili che già oggi concorrono al fabbisogno energetico mondiale in misura molto maggiore ed a prezzi più contenuti del nucleare. Con quale coraggio - accusa Vendola - un governo che ha bisogno dell´esercito per togliere la ‘monnezza´ dalle strade campane, ci propone una ricetta velenosa contro la quale la maggioranza degli italiani si è già chiaramente espressa?».
Contro quei veleni e alcuni anni prima, si espressero quasi tutti gli avetranesi, il 98%: nelle urne delle otto sezioni le schede con il sì furono 35. Battaglia vinta, allora. Oggi è un déjà vu. E il fronte del no è anche più largo. Tocca Nardò e Manduria: il sito è sui loro territori, all´interno, a due chilometri dalla costa, sabbia bianca e acqua cristallina, tra Porto Cesareo e Torre Lapillo, una delle più suggestive del Salento, nonostante lo sfregio dell´abusivismo edilizio. A Nardò, dove c´è un parco marino e un´area protetta, Antonio Vaglio guida una giunta di centrosinistra: «Dopo gli sforzi e le battaglie per Porto Selvaggio, per potenziare l´economia turistica, una centrale nucleare sarebbe un´umiliazione». Il sindaco neretino difende il Salento ma anche la Puglia: «Siamo disposti ad ospitare eolico, fotovoltaico - insiste - ma non il nucleare. Sarebbe un´offesa». Francesco Massaro, sindaco di Manduria, ironizza: «Una centrale nucleare qui? Qualcuno deve aver ripreso il libretto di appunti di 25 anni fa senza sapere che l´area dove vogliono farla è sito di interesse comunitario, dove non si può spostare nemmeno una pietra. Spiegatelo al sindaco di Avetrana che non riesce a scaricare nemmeno le acque reflue nella palude del Conte!».
Il deputato del Pd, Ludovico Vico, è di Taranto. Conosce la zona. Ma sul nucleare non ha pregiudizi: «Non dico un no a prescindere, dico che è un errore perché in 30 anni non siamo riusciti a smaltire nemmeno le scorie. Ora per chiudere quel ciclo ci vogliono tre miliardi di euro. Che facciamo? Costruiamo altre centrali usando uranio arricchito? Tanto vale completare le ricerche sul nucleare al deuterio e al litio, per l´energia delle stelle e del sole».

venerdì 23 maggio 2008

«Basta con questi spot dannosi, Sul nucleare Scajola dice falsità»

Liberazione, 23 maggio 2008
«Basta con questi spot dannosi, Sul nucleare Scajola dice falsità»

Castalda Musacchio
«Ma il ministro sa di cosa parla? Basta con questi falsi spot». Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente lancia un durissimo j'accuse nei confronti del neo ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola. «E' rispuntata la favoletta del nucleare - avverte - ma in verità si tratta solo di una gravissima operazione ideologica che potrebbe avere esiti imprevedibili». «Non è più eludibile un piano di azione per il ritorno al nucleare», ha annunciato ieri il ministro nell'assemblea di Confindustria. «Solo gli impianti nucleari - ha dichiarato - consentono di produrre energia su larga scala, in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell'ambiente». «Scajola - replica il presidente di Legambiente - dovrebbe fare molta attenzione a ciò che dice prima di sbandierare atomi a destra e a manca. In Europa gli ultimi impianti sono di terza generazione e sono in dismissione, se poi intende realizzare centrali di quarta generazione queste non si potranno costruire prima del 2020. Quindi, in sostanza, di cosa parla Scajola?».

Presidente, Scajola ha annunciato il ritorno al nucleare. «Porremmo la prima pietra - ha detto ieri - per la costruzione di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione». Cosa ne pensa?
Innanzitutto questo ministro fa degli errori di sintassi. Preciso meglio: cosa intende per nucleare di nuova generazione? Se si parla di nucleare di quarta generazione, allora si può senz'altro dire che si rinvia tutto a dopo il 2020 dato che la ricerca è ancora in corso. Se poi il ministro fa, invece, riferimento a centrali di terza generazione dovrebbe ben sapere che attualmente questo tipo di centrali sono in dismissione in tutta Europa. Pensare di costruirle in Italia significherebbe fare un buco nell'acqua. Dunque vorrei che prima di tutto Scajola facesse chiarezza.

Eppure il ministro ha parlato di sicurezza, competitività, costi bassi per l'energia...
Ancora altri errori gravissimi, altre bugie. Non c'è nessun elemento di novità sul piano della ricerca né dell'innovazione rispetto al nucleare che ha portato all'incidente di Chernobyl. Il nucleare attuale presenta letteralmente gli stessi identici rischi. Dunque, punto primo: non si può parlare di sicurezza. Per quanto riguarda la competitività. Si continua a dire che il nucleare produrrebbe energia a basso costo. Anche questa è una vera bugia perché nel calcolo del kw finale non si tiene conto di altri parametri indispensabili per quantificare il vero costo. Vale a dire bisogna considerare la filiera che sta dietro la costruzione di una centrale per parlare di un costo vero. E questa è fatta da costi di progettazione oltre che di smaltimento dei rifiuti. Se Scajola considerasse il tutto uscirebbe fuori che il costo energetico sulla collettività sarebbe analogo o addirittura leggermente superiore rispetto al solare. Quindi il nucleare non è affatto competitivo. In più, a margine, vengono dette altre falsità.

Quali?
Per esempio si continua a dire che il nucleare è pulito. Su questo ultimo punto potrei essere d'accordo se si va ad escludere però tutta la filiera che sta dietro la costruzione di una centrale che produce e come C02 e in quantitativi allarmanti. Inoltre vorrei aggiungere un'altra riflessione.

Prego...
Marcegaglia ieri ha affermato che il nucleare elimenerebbe la dipendenza dall'estero. Ci chiediamo: ma Marcegaglia conosce depositi di uranio in Italia che a noi non risultano? Senza considerare che quando si parla di uranio si parla si riserve che si prevede possano avere dai 35 ai 70 anni di sopravvivenza. Una risorsa limitatissima per il pianeta, come lo è attualmente il petrolio. Altro elemento di analisi che pongo all'attenzione di tutti è il seguente: per costruire una centrale ci vogliono almeno 10 anni. Il primo, e fino ad oggi, unico reattore nucleare commissionato in Europa occidentale dopo Chernobyl è quello finlandese sull'isola di Olkiluoto che ha già sforato il budget di spesa previsto del 35%. In Italia, conoscendo la situazione, si finirebbe per sfiorare costi superiori al 45-50%. E' ora di dire a questo governo di smetterla di lanciare spot solo ideologici e molto gravi perché depotenziano tutte quelle iniziative per il rilancio di vere energie pulite. Concludo dicendo che la Spagna ha raggiunto il 29% di produzione energetica dal rinnovabile eolico superando di gran lunga la quota che produrrebbe il nucleare che non supera il 12%. Forse bisognerebbe prendere esempio da questo paese.


23/05/2008

La solita scoria

La solita scoria

L'Unità del 23 maggio 2008, pag. 1

di Pietro Greco

Il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, intervenendo ieri all’assemblea di Confindustria, ha annunciato che il quarto governo Berlusconi terrà fede alle promesse effettuate in campagna elettorale ed entro questa legislatura porrà «la prima pietra per la costruzione nel nostro paese di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione». La neopresidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha dichiarato di condividere gli obiettivi indicati da Scajola. E l’Enel si è detta pronta a realizzarli. Ma a realizzare, esattamente, che cosa?

Scajola ha parlato di un gruppo di centrali nucleari di «nuova generazione» che verrà realizzato «in modo sicuro, a costi competitivi e nel rispetto dell’ambiente».

In questo momento, nel mondo, sono funzionanti alcune centinaia (quattrocento, perla precisione) di centrali di «seconda» e di «terza generazione». Se Scajola parla di centrali di nuova generazione intende, intende le centrali di «quarta generazione», che si annunciano per l’appunto, sicure, economicamente competitive e rispettose dell’ambiente. Queste «nuove centrali» hanno molti pregi e un difetto. I pregi consistono nel fatto che i sei principali tipi di reattori di «quarta generazione» sono a sicurezza (sia passiva che attiva) intrinseca, producono molte meno scorie dei reattori presenti nelle centrali di generazione precedente, sono economicamente competitivi e producono meno materiali, come dire, militarmente sensibili (leggi plutonio). Il difetto consiste nel fatto che le centrali di «quarta generazione» non esistono. Non ancora, almeno. Sono allo studio. I più ottimisti calcolano che saranno pronte all’uso non prima del 2030. E quindi, per quanto credito vogliamo concedere alla capacità progettuale del nuovo governo e per quanto convinti estimatori siamo delle capacità industriali dell’Enel, non sarà assolutamente possibile in alcun modo dar seguito alle indicazioni di Scajola e porre la «la prima pietra per la costruzione nel nostro paese di un gruppo di centrali nucleari di nuova generazione» entro il 2013.



D’altra parte l’Italia, come ha fatto notare Pierluigi Bersani, ministro ombra dello Sviluppo economico, è già impegnata nella ricerca sul nucleare di «quarta generazione», avendo sottoscritto col governo Prodi la Global Nuclear Energy Partnership (GNEP). Ma neppure rafforzando questa partecipazione già in atto sarà minimamente possibile mettere una qualche pietra di un qualcosa di nuovo che produca energia da fonte nucleare entro la fine di questa legislatura. È dunque chiaro che il ministro, facendo un po’ di confusione, si riferisce a «un gruppo di centrali nucleari di vecchia generazione». Ovvero a un tipo di nucleare che, come ha fatto notare Ermete Realacci, è piuttosto costoso e che soprattutto produce un problema, le scorie, che ancora non ammette una soluzione accettabile. Inoltre bisognerebbe capire dove e come - in un paese ad alta concentrazione demografica come l’Italia e con non poche peculiarità geologiche - sarebbero costruite in pochi anni un numero così elevato di centrali nucleari di vecchia generazione (almeno una decina da 1 GW ciascuna) da costituire un gruppo significativo nel nostro paniere energetico. A meno di non militarizzare, come si farà in Campania con le discariche per i rifiuti, ampie zone del territorio nazionale.



Quella di Scajola è, dunque, una proposta tanto confusa quanto ideologica (per usare ancora una definizione di Realacci). Che, in più, rischia di portarci fuori strada. Fuori, almeno, dalla strada tracciata dall’Unione Europea. Che prevede, entro il 2012 (un anno prima della fine della legislatura), la rigorosa attuazione del protocollo di Kyoto (riduzione del 6% delle emissioni digas serra rispetto ai livelli del 1990 e, quindi, di quasi il 15% rispetto ai livelli attuali) ed entro il 2020 il pacchetto «20-20» (riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto ai livelli del 1990 e, quindi, di oltre il 30% rispetto ai livelli italiani attuali; incremento fino ad almeno il 20% delle fonti rinnovabili nel paniere energetico).



Tecnicamente il «vecchio» nucleare potrebbe rientrare nella strada indicata dall’Europa. Ma in pratica no. Non in Italia, almeno. Per due motivi. Perché sarà molto difficile se non impossibile costruire in così poco tempo (solo sette anni tra il 2013, anno della prima pietra, e il 2020, anno limite del «pacchetto 20-20») dieci epiù grandi centrali nucleari (che peraltro nascerebbero già obsolete, visto che intorno al 2030 dovrebbero iniziare a essere disponibili le centrali di effettiva «nuova generazione»). E perché l’impresa assorbirebbe così tante risorse, da svuotare quelle disponibili per stimolare il risparmio energetico (la maggiore, la più accessibile e la più sostenibile delle opzioni che è possibile attivare non a fine legislatura, ma già ora, per modificare il paradigma energetico del paese) e le altre fonti di energia rinnovabili ed effettivamente «nuove»: dal solare all’eolico, fino allo stesso nucleare di «quarta generazione».

giovedì 22 maggio 2008

L'affare nucleare? Solo un incubo

L'affare nucleare? Solo un incubo

di Angelo Baracca

Il Manifesto del 23/09/2005

Un business economicamente ed ecologicamente incompatibile

Le industrie nucleari affilano i coltelli e si contendono un mercato che fa gola. Sostengono con improbabili motivazioni ambientaliste il rilancio delle centrali atomiche. È in Asia che si rischia grosso per il futuro del pianeta

Quanto è realistico il rilancio del nucleare civile? Che interessi lo sospingono? La prestigiosa rivista Science ha pubblicato il 19 agosto un Dossier sull'argomento, abbastanza obiettivo e realistico. I motivi addotti sono noti: fronteggiare il devastante riscaldamento globale (nobile obiettivo, se non fosse contraddetto dall'incapacità di prendere altri provvedimenti più rapidi ed economici, e comunque necessari - risparmio, riduzione del trasporto su gomma, riconversione dei processi produttivi e dei prodotti); la crisi incombente del petrolio, le critiche alla possibilità di coprire i crescenti fabbisogni energetici con le fonti rinnovabili (che comunque non vengono incentivate); l'inquietante richiesta di energia che si profila per l'India e per la Cina.

Dopo la profonda crisi seguita all'incidente di Chernobyl, l'industria nucleare fiuta la possibilità di un massiccio rilancio. Il piano energetico firmato in agosto da Bush prevede generosi contributi al nucleare.

Interrogativi e incognite

Il Dossier dà subito ampio spazio ai dubbi. «Gli scettici sottolineano che sarebbe necessario un grande balzo nel ritmo di costruzione delle centrali solo per mantenere l'attuale quota globale di produzione di elettricità da fonte nucleare (circa 17 %), per non parlare di aumentarla... Anche le nuove (centrali, ndr) rimangono più care dei sistemi alimentati a carbone o a gas». Uno studio di giugno del Ndrc (National Resources Defense Council) conclude che il nucleare non potrebbe sopravvivere senza massicci sussidi, poiché «soffre di troppi problemi di sicurezza politica e tecnica ed esposizione ambientale e di costi eccessivi per qualificarsi come il mezzo di punta per combattere l'inquinamento del riscaldamento globale». Cochran, del Ndrc, «non vede il nucleare come una buona opzione»: egli calcola che, anche «un obiettivo modesto - evitare con il nucleare un piccolo aumento (0,2 °C) del riscaldamento globale per la fine di questo secolo», «richiederebbe di elevare il numero di reattori nel mondo dagli attuali 441 ad almeno 700 per la metà del secolo, e mantenerne stabile il numero per 50 anni. Per coprire la chiusura degli impianti obsoleti, questo richiederebbe la costruzione di 1.200 nuove centrali, a un ritmo di 17 all'anno. Le necessità di supporto sarebbero impressionanti: una decina di nuovi impianti di arricchimento per il riprocessamento, lo stesso numero di depositi di scorie delle dimensioni di Yucca Mountain se non si facesse il riprocessamento, o centinaia di migliaia di tonnellate di materiale da custodire durante il riprocessamento. ... una rinascita nucleare non vale il rischio».

Va ricordato che gli Usa hanno accantonato il riprocessamento del combustibile a favore del «monoutilizzo». D'altra parte, nessun altro paese al di fuori degli Usa ha ancora fatto la scelta, e tanto meno avviato la realizzazione di un deposito per le scorie. Stupisce però che Science non menzioni mai il problema del decommissioning di questo numero enorme di centrali, con giganteschi costi e produzione di ulteriori scorie.

Quali reattori e quali interessi?

Se questa dovesse essere la «torta», si scateneranno lotte feroci per spartirsela, a scapito delle scelte più convenienti. E' una storia vecchia: negli anni Cinquanta e Sessanta, Francia e Gran Bretagna avevano sviluppato filiere di reattori a gas-grafite a uranio naturale (vedi scheda), ma negli anni Settanta le abbandonarono, vendendosi ai reattori ad acqua leggera e uranio arricchito delle statunitensi General electric e Westinghouse (anche al canadese Candu non rimaneva che una fetta di mercato marginale). La General atomic aveva sviluppato i reattori a gas-grafite negli Usa, ma gli ordini per 10 centrali furono cancellati con la contrazione energetica del 1973. E pensare che questi reattori sembrano ritornare di moda.

Infatti, «molti esperti pensano che il futuro boom non sarà una semplice riedizione della stagione degli anni Sessanta e Settanta. In primo luogo, molti più paesi vogliono il nucleare ma non tutti vogliono gli impianti da 1.000 megawatt favoriti dalle grandi nazioni industrializzate. Vogliono reattori più rapidi da costruire, sicuri e facili da gestire, mentre le nazioni nucleari principali vogliono assicurarsi che il combustibile esaurito non possa venire deviato per altri scopi. In certi casi, gli impianti possono anche non produrre elettricità: gli usi alternativi includono il funzionamento di impianti di desalinizzazione in aree aride, la fornitura di calore per processi petrolchimici e anche la generazione di idrogeno». (Ecco intrecciarsi il business della mitica «economia dell'idrogeno» con quello del nucleare).

Molti giudicano che in questa situazione non sono adatti i grandi e monolitici reattori ad acqua leggera (Lwr), e puntano sui reattori a gas-grafite che funzionano ad alta temperatura (Htr, 500-1000 °C), sono più adatti a taglie minori, innalzano l'efficienza della conversione dell'energia, sono idonei alla produzione di idrogeno e sembrano presentare caratteristiche migliori di sicurezza passiva: non consentono le economie di scala dei grandi impianti ma possono essere realizzati in moduli.

Lotte commerciali

Si profila già una lotta a coltello. In effetti, il rilancio del nucleare, particolarmente forte in Asia (Cina, 30 reattori per il 2020, per quadruplicare la produzione elettronucleare; India, 8 in costruzione; Corea, 8 in progettazione; Giappone, aumento dell'energia elettronucleare dal 25,5% al 40,4% nel 2013), si basa prevalentemente su perfezionamenti dei reattori tradizionali raffreddati ad acqua, resi necessari dopo gli incidenti di Three Mile Island del 1979 e di Chernobyl del 1986. Il reattore Ap1000 della Westinghouse, modificazione del Pwr, usa la gravità, la circolazione naturale, e gas compresso per raffreddare il nucleo in un'emergenza: ha così ridotto il numero di valvole del 50%, di tubature dell'83%, di cavi di controllo dell'87% e di pompe del 35%. Mentre il modello semplificato Bwr della General electric ingloba un serbatoio d'acqua sopra il reattore che in caso di emergenza lo sommerge automaticamente.

Ma il Dossier dà ampio risalto alle riserve verso questi modelli e alle opinioni secondo cui il futuro sarà degli Htr. Basti pensare che non è stato deciso il tipo di reattore che sarà scelto per l'impianto pilota di nuova generazione da 1,3 miliardi di dollari previsto nei provvedimenti energetici di Bush.

Science si dilunga soprattutto su due opzioni. Sudafrica e Cina sviluppano reattori «a letto di sfere» (pebble bed), che riprendono in realtà un prototipo che ha funzionato in Germania dal 1968, chiuso dopo l'incidente di Chernobyl. General atomics e Giappone sviluppano una geometria «prismatica». Questi progetti sembrano presentare vantaggi considerevoli: ma «una cosa che non risolvono è il problema delle scorie», che vengono anzi prodotte in volumi maggiori.

I colli di bottiglia dell'opzione nucleare sembrano dunque ripresentarsi, sia pure in forma mutevole. L'India sta seguendo anche una strada molto originale, un reattore al torio. Vale la pena di osservare come lo shock dei test nucleari del 1998 sia passato molto presto, se gli Usa hanno stipulato con l'India un accodo sul nucleare, ancorché «civile». (il manifesto, 20 luglio). Giappone, Cina, India, Sud Corea e Russia proseguono anche la strada dei reattori veloci, su cui gli ambiziosi progetti francesi erano naufragati.

Ma si moltiplicano anche le incognite. In Giappone - dove le forti correnti militariste spingono anche per dotarsi di armi nucleari, incoraggiate dalla strategia di Washington di accerchiamento della Cina - preoccupa il progetto dell'impianto di riprocessamento di Rokkasho, che produrrà 8 tonnellate di plutonio all'anno. Dall'altro lato la Cina, per coprire il 20 % dei fabbisogni elettrici nel 2050 «dovrebbe acquisire il 75 % di tutti i depositi di uranio noti facilmente accessibili». Si profilano guerre preventive per l'uranio?

Le battute conclusive del Dossier sono sulla crescita dell'opposizione popolare in Giappone e, anche se in misura minore, in Cina.

E l'Italia?

A parte il nodo del risultato del referendum popolare del 1987, quali sarebbero le possibilità di una ripresa del nucleare in Italia? Il fallimento clamoroso del programma nucleare italiano fu dovuto in primo luogo alla cialtroneria di chi lo gestì: impianti sperimentali scoordinati (Latina a gas-grafite, Garigliano Bwr, Trino Pwr; più un reattore militare che celava aspirazioni frustrate), sprechi di risorse, progetti di ricerca insensati falliti e neppure conclusi, reattori di ricerca che non hanno mai funzionato e non sono serviti a niente (Pec, veloce; Cirene, ad acqua pesante), dipendenza intellettuale dagli Usa, emarginazione di chi proponeva progetti sensati diversi.

Si valuta che furono investiti 62 miliardi di Euro: ma quanto costeranno il decommissioning di 8 centrali (Saluggia, Latina, Garigliano, Trino, Cisam, Padova, Palermo, Caorso) e la gestione delle scorie, che è ancora in alto mare e crea interminabili problemi economici e politici e tensioni sociali esplosive? Il paragone con il costo del kwh nucleare prodotto dalla Francia rimane molto ideologico, se non si tiene conto che Parigi ha realizzato e mantiene uno dei più poderosi arsenali nucleari militari, e fa affari riprocessando il combustibile esaurito di molti paesi (ma, come la maggior parte, non ha ancora affrontato la patata bollente del deposito per le scorie).

Dopo il referendum, inoltre, sono state smantellate le competenze che si erano accumulate, per cui una ripresa del nucleare oggi in Italia sembra ancora più problematica. Un piano economicamente sensato dovrebbe prevedere la costruzione di numerose centrali: dove le piazzeremmo nel nostro territorio così popolato? I servizi del manifesto (18, 20 agosto) sui progetti nazionali per la fusione nucleare controllata, aldilà delle polemiche che hanno sollevato, sembrano confermare che la cialtroneria rimane una nostra prerogativa. Anche un articolo di Ugo Spezia sulla rivista apertamente filo-nucleare Le Scienze di giugno deve ammettere che «è difficile pensare a una riapertura dell'opzione nucleare nel breve termine».

No nuke. I numeri parlano chiaro

No nuke. I numeri parlano chiaro

di Fabio De Ponte

Il Manifesto del 22/04/2006

Sergio Carra calcola i costi del nucleare e spiega perché l'atomo non è una soluzione. Svantaggioso «Un programma nucleare in Italia avrebbe senso solo se si costruissero una ventina di reattori. Ma questo non è proprio possibile»

Quanto costa il nucleare? Un miliardo di euro e dieci anni di cantiere per produrre appena lo 0,5% del fabbisogno nazionale di energia. Sono questi i numeri di un impianto nucleare, denuncia Sergio Carrà, professore di ingegneria chimica al politecnico di Milano.
«Io non sono un verde, ma i numeri sono numeri»: è lapidario». Sergio Carrà, parla con il tono di chi pazientemente deve spiegare una cosa ovvia. Alle spalle una carriera universitaria a Messina, Bologna e Milano, dove è stato anche preside del corso di ingegneria chimica, e diversi riconoscimenti internazionali per la sua attività di ricerca.
Il solare, dice, ci metterà qualche decennio a offrire un terzo dell'energia necessaria al paese. Ma non ci sono scorciatoie: per il nucleare i tempi sono lunghi e il risultato trascurabile, a meno di aprire almeno una ventina di impianti.

Mi pare di capire che vedete il futuro dell'energia nel solare.

Ho portato dei numeri chiari. Guardi che io non ho nessun pregiudizio, anche contro il nucleare.

In questo periodo sembra che entrambi gli schieramenti stanno riproponendo l'ipotesi di riaprire il capitolo del nucleare.

Su questo le do una risposta tecnica: supponga di partire con un programma nucleare in Italia. Un reattore nucleare, un impianto, credo che costi un miliardo di euro circa. Bene, con un impianto, la cui costruzione durerebbe una decina di anni - a parte poi i problemi sociali - lei produrrebbe si e no lo 0,5% dell'energia necessaria all'Italia.

Quali sono poi i costi annuali di mantenimento?

Tenga conto che oltretutto lei ha bisogno oggi di un grosso capitale di investimento, il cui ritorno è tra dieci anni almeno. Per cui un programma nucleare potrebbe avere senso se - e solo se - si costruissero una ventina di reattori. Ora io le chiedo: le sembra possibile che oggi in Italia, tenendo conto della situazione economica, tenendo conto della situazione sociale e politica si possa fare una cosa del genere?

Esiste però in Italia un problema con l'energia.

Il problema è un altro: devono riprendere le ricerche sul nucleare, soprattutto sui reattori futuri. Su questo io dico di sì, perché la ricerca non si deve smettere. Ma attualmente lo vedo molto problematico, perché basta fare questi conti. Sono due conti, sa. Poi le dico un'altra cosa. Si dice «l'Italia ha dismesso il nucleare perché c'è stato il referendum». Ora, il referendum è stato, a mio parere, una cosa sbagliata, perché questi problemi non si risolvono con il referendum. Ma in America dal 1973 non si costruisce un impianto nucleare. E in America non c'è stato il referendum. Mediti su questo.

Il problema dell'approvvigionamento energetico in Italia però è consistente.

Ma questo anche perché in Italia non abbiamo mai fatto nessun piano energetico.

Quindi come si affronta il problema?

Secondo me questo problema va affrontato gradualmente. Le energie rinnovabili hanno bisogno anche loro di venti o trenta anni per diventare significative. Qui il fatto è questo: il problema non è manicheo. I fossili non li butteremo via. Continueremo ad usarli, ma bisogna diminuire la loro incidenza. Bisogna produrre però una certa quantità di energia che sia carbon-free. Che vuol dire che bisogna accelerare lo sviluppo delle energie rinnovabili in modo che tra venti anni effettivamente arrivino incidenze diciamo intorno al trenta per cento. E adesso bisogna arrangiarsi, cosa vuole che le dica. Bisogna che accettiamo gli evaporatori, i gassificatori, che poi non sono la fine del mondo.

Quindi con gli impianti solari, tra trenta anni saremo in grado di produrre il 30 per cento del fabbisogno nazionale. Perciò secondo lei è inutile sprecare risorse per il nucleare.

"Questa è un'opinione mia. Guardi che io non sono un verde, né un ambientalista. Perché in America non li costruiscono più gli impianti nucleari?

Perché la Francia invece ce li ha?

Perché la Francia ha fatto una scelta. Però voglio vedere, adesso che i suoi vanno in rottamazione e li dovrà rinnovare, cosa farà. Tenga conto che se lei vuole distruggere un impianto nucleare, bonificare il terreno le costa come costruirne uno nuovo.

Un altro miliardo di euro?

Sicuro. Io ho visto quello che costa bonificare i terreni di impianti chimici. Vada a vedere cosa costa. Centinaia di miliardi . Le cifre sono da capogiro. Io non sono un verde, ma i numeri sono numeri.

Il nucleare dell'Enel e il vento della Puglia

Il nucleare dell'Enel e il vento della Puglia

di Nicola Cipolla

Liberazione del 25/05/2006

Mentre l’Italia era ancora impegnata in un lungo e faticoso iter elettorale/costituzionale, Flavio Conti, che ha sostituito da poco più di un anno Scaroni alla direzione dell’Enel, ha pensato bene di concludere, nel mese di aprile, gli accordi con la Slovacchia e con l’Edf francese che riportano l’ex ente monopolista di stato, ma tuttora a maggioranza pubblica, negli affari nucleari d’Europa.
Questa mossa è grave e pericolosa per diversi ordini di motivi. In primo luogo perché correttezza gestionale avrebbe consigliato un amministratore nominato dal precedente governo ad attendere il placet del nuovo esecutivo.

In secondo luogo la firma è avvenuta nel momento in cui tutta l’umanità, e in particolare l’Europa, commemoravano l’anniversario del terribile disastro di Chernobyl, avvenuto in un impianto che adopera la stessa tecnologia di quelli esistenti in Slovacchia.

In terzo luogo perché, proprio in seguito a Chernobyl, il fronte ambientalista italiano (con l’appoggio della sinistra del Pci) aveva ottenuto la vittoria del referendum popolare (la richiesta di referendum era stata presentata ben prima dell’incidente) che metteva fuorilegge l’energia atomica e bloccava così l’affannoso tentativo dell’Enel di Viezzoli (che poi finì in galera per questo) di arrivare, comunque, alla costruzione della centrale di Montalto di Castro.

Ma tutto questo per un Ceo (Chef Executive Officer) come Flavio Conti, che un giorno sì e un giorno no afferma che il suo scopo principale è quello di creare “valore” cioè profitti per l’Enel, poteva non avere nessun significato.

Ma anche dal punto di vista economico la scelta nucleare, in linea generale e nella fattispecie per i due affari slovacco e francese, apre prospettive disastrose. “Il mercato energetico fatto di sola concorrenza è un nemico spietato della tecnologia nucleare”. Oggi come oggi il Kw/ora più economico è quello delle centrali a metano a ciclo combinato, seguito dall’eolico, dal carbone, dal nucleare e in ultimo dai derivati del petrolio.

Queste affermazioni sono ricorrenti in tutta la stampa economica e tecnica. Negli Stati Uniti, a partire dall’incidente di Three Miles Island precedente a quello di Chernobyl, da oltre venti anni non si costruiscono più centrali atomiche per l’introduzione di norme restrittive che riguardano la sicurezza. Ma anche prima di questo incidente la produzione di energia elettrica atomica era fortemente sovvenzionata, di fatto, dalla spesa per l’uso militare dell’atomo che poneva a carico della collettività sia gli investimenti per la ricerca sia gran parte del costo del ritrattamento dell’uranio utilizzato nelle centrali elettriche. Paesi come la Germania e la Svezia stanno uscendo dal nucleare man mano che le centrali, costruite prima degli incidenti, si chiudono e si contano sulle dita di una mano le iniziative di completamento di impianti in costruzione; tra questi l’impianto di Mochovce che l’Enel ha fatto proprio con l’acquisto del 66% delle azioni della Slovenske Elektrarne privatizzata.

Per il controllo di questa società (che ha 900 milioni di euro di debito verso le banche) l’Enel ha già sborsato 840 milioni di euro e si è impegnata ad un investimento di un miliardo di euro per il completamento di due reattori ancora in costruzione. Ma nel processo di privatizzazione slovacco l’Enel arriva dopo che l’Edf francese e la Rowe tedesca hanno acquisito il controllo della rete di distribuzione slovacca, e potranno anche non acquistare o imporre prezzi bassi per l’energia che l’Enel produrrà con gli impianti slovacchi.

Né meno incerto, dal punto di vista economico, è l’investimento francese dove l’Enel si è impegnato ad apportare il 12,50% della spesa (circa tre miliardi di euro) anche qui in cambio del 12,50% dell’energia prodotta da vendere, tra parecchi anni, a chi avrà il dominio delle reti di distribuzione senza le quali l’energia prodotta non avrà praticamente valore. Ma a questo riguardo il governo francese ha già provveduto ad impedire che l’Enel potesse entrare nel settore della distribuzione in Francia (come il governo spagnolo per la sua industria) mentre l’Edf in Italia, in accordo con la ex municipalizzata lombarda Aem, ha acquisito il controllo dell’Edison cioè del più ricco mercato italiano di consumo dell’energia elettrica che è quello padano. Un bilancio sconsolante.

Da dove prende i soldi l’Enel da investire all’estero in avventure così spericolate? Li prende dalle tasche dei consumatori e dalle imprese italiane che pagano l’energia elettrica il 25% in più rispetto agli altri paesi europei, malgrado che nel bilancio elettrico italiano influisca, per il 18%, la produzione idroelettrica derivante da impianti già totalmente ammortizzati e prodotta da una materia prima, l’acqua, che viene dal cielo e che non è sottoposta agli sbalzi delle quotazioni del petrolio. Non sarebbe meglio che l’Enel, invece di accumulare utili, sviluppasse una politica di concorrenza sul prezzo dell’energia con le multinazionali, francesi e spagnole in particolare, che vengono in Italia solo per sfruttare, da oligopolisti, gli alti prezzi che l’ex monopolio pubblico impone ai consumatori italiani?

Recentemente sia la Commissione parlamentare sulle attività produttive, presieduta dall’Udc Tabacci, con una relazione approvata quasi all’unanimità sia con l’intervento della Commissione dell’Unione europea è stato sottolineato il carattere monopolistico della gestione delle reti energetiche in Italia: per il gas con la Snam Retegas e per l’Enel con la società Terna che, vedi caso, era presieduta dal dottor Flavio Conti prima della sua ascesa alla massima direzione dell’Enel a cura del governo Berlusconi.

Uno dei compiti del governo, e del Parlamento uscito dal voto del 9 e 10 aprile, sarà quello di riprendere questo discorso. Anche perché l’Enel oltre al nucleare avanza la proposta della trasformazione a carbone di alcune centrali. Queste centrali sono non solo meno redditizie delle centrali a turbo gas, tanto è vero che nessun imprenditore privato ha avanzato proposte di centrali a carbone, ma sono fortemente inquinanti e vanno contro gli accordi di Kyoto perché responsabili di maggiori emissioni rispetto al gas e soprattutto alle fonti rinnovabili che trovano, invece, spinte favorevoli da parte delle popolazioni.

Queste fonti nei programmi di Flavio Conti hanno solo un ruolo marginale perché sottraggono quote di mercato alle centrali tradizionali dell’Enel (e degli altri grandi produttori) e perché richiedono una ristrutturazione della rete di distribuzione finora basata esclusivamente sull’apporto di grandi centrali, concentrate in alcuni siti del paese, mentre con l’avvento delle rinnovabili entrano in gioco centinaia o migliaia e decine di migliaia di piccoli produttori che, anche in base alle direttive comunitarie ed agli accordi di Kyoto, hanno diritto a immettere in rete la loro produzione.

La scelta atomica e del carbone e il bavaglio alle energie alternative, in particolare a quella eolica, faceva parte del programma del governo Berlusconi, ma non fa parte del programma approvato dall’Unione che vorrebbe fare recuperare all’Italia un ritardo nelle energie rinnovabili rispetto agli altri paesi europei.

Nel 2005 l’Europa ha raggiunto con 40.500 Mw eolici installati (una produzione annua di 24 milioni di tep) il primato in tutto il mondo e va sottolineato che questi valori hanno consentito di superare con cinque anni di anticipo l’obiettivo di 40.000 Mw fissato nel libro bianco dell’Ue per il 2010.

In testa alla classifica ci sono la Germania con 18.428 Mw e la Spagna che ha superato il 10.000 Mw e stanno entrando in questa produzione paesi come il Portogallo che ha superato i 1.000 Mw, l’Olanda, la Gran Bretagna e naturalmente la Danimarca che aveva la più alta percentuale di produzione eolica dell’Europa.

Nel 2005 l’Italia ha avuto quasi una battuta d’arresto dovuta, non tanto, io ritengo, alle forze ambientaliste che protestavano contro casi isolati di impianti in zone paesaggisticamente rilevanti, quanto alla netta opposizione, come ad esempio è avvenuto in Sicilia, da parte dell’Enel e della sua filiale Terna che hanno espressamente sollecitato il governo Cuffaro a imporre limiti non paesaggistici ma quantitativi rifiutandosi di immettere nella rete l’energia eolica che una serie di imprese volevano produrre in Sicilia per 5.000 Mw.

Uno dei primi compiti del governo dell’Unione dovrebbe essere quello di rielaborare finalmente un piano energetico nazionale rispettoso delle indicazioni dell’Ue e di Kyoto. In questo senso si muove, nell’elaborazione del suo Piano Energetico Regionale, la Regione Puglia che ha raccolto suggestioni ed esperienze che vengono dalle altre regioni di centro-sinistra d’Italia e dalle esperienze più avanzate dell’Europa.

La lettura dei documenti pubblicati nel sito della Regione Puglia dà un’indicazione del grande lavoro in corso, degli orientamenti generali e, a mio avviso, soprattutto della partecipazione richiesta e organizzata da parte di istituzioni come Comuni, Province, associazioni culturali e ambientaliste, sindacati, associazioni di produttori industriali ed agricoli (circa 1.200). Da questi documenti e dalle notizie di stampa emergono orientamenti che si possono così riassumere:
- è una regione caratterizzata da un lato dalla presenza massiccia di mostri industriali ad altissimo tasso di inquinamento e produce quasi il doppio di energia elettrica consumata (la sola centrale a carbone di Cerano, vicino Brindisi, produce il 6% di tutte le emissioni ammesse in Italia da oltre 1.600 imprese responsabili di inquinamento da anidride carbonica e il 12% di quelle elettriche) e dall’altro è una delle regioni più indiziate per la produzione di energia eolica, solare e biomasse in collegamento con la riduzione di colture agricole tradizionali non più garantite dai contributi comunitari. La scelta quindi di fondo è quella di una drastica riduzione dell’uso del carbone e del petrolio e dello sviluppo delle energie alternative e in particolare dell’eolico (già oggi la Puglia è al primo posto i Italia per potenza eolica installata, per domande accolte e per domande in corso di espletamento per circa 3.000 Mw).

- sviluppo non più affidato soltanto a imprenditori che scelgono di concentrare gli impianti eolici in siti paesaggisticamente rilevanti, ma diffuso nel territorio con nuovi protagonisti come le imprese municipalizzate e i produttori agricoli come avviene in Germania. Naturalmente ciò presuppone un completo rinnovamento della rete e soprattutto dei metodi di gestione della stessa con l’affermazione del principio che ogni produttore di energia ha il diritto di immettere nella rete, bene comune, la quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili.

Questo complesso processo democratico di consultazione dovrebbe portare nel prossimo mese di giugno all’approvazione del Piano che può costituire un esempio e un punto di riferimento per il movimento in tutta Italia. Un solo esempio: la lotta popolare di Civitavecchia contro la centrale elettrica a carbone viene rafforzata dalla decisione del Piano energetico pugliese di ridurre fino ad annullare, come richiesto da molti interventi di Enti locali tra cui il Comune di Brindisi (di centro destra) e le associazioni ambientaliste per la trasformazione della centrale di Cerano da metano a ciclo combinato.

La situazione della Puglia non è diversa da quella di altre regioni meridionali che sono tutte interessate alla riduzione dell’inquinamento dei grandi impianti petrolchimici ed energetici che furono sostenuti dalla Cassa del Mezzogiorno e, per converso, dalla utilizzazione massiccia delle energie alternative che nel Mezzogiorno più che nella Valle Padana rappresentano una fonte preziosa e pulita.

Il governo Prodi deve però fare una scelta tra la politica dell’Enel che è stata sostenuta dal governo Berlusconi e che è in contrasto, ripetiamo, con gli orientamenti di Kyoto e dell’Ue, e una nuova politica energetica che può costituire in primo luogo per il Mezzogiorno non solo una grande risorsa dal punto di vista ambientale ma anche per quanto riguarda lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione, e il trasferimento attraverso il meccanismo dei Certificati Verdi di miliardi di euro dalle industrie inquinanti ai Comuni ed ai piccoli produttori di energia.